Tutto sulla comunione legale e sulla separazione dei beni

In Italia quando due persone si sposano tra di loro si instaura automaticamente il regime patrimoniale della comunione legale dei beni. Tale regime è entrato in vigore il 20 settembre 1975 con la l. 19 maggio 1975 n. 151 (cd. Riforma del diritto di Famiglia).

In precedenza, infatti, il regime legale era quello della separazione dei beni e per instaurare la comunione occorreva un apposito negozio di comunione convenzionale. Prima del 1975 di norma ciascun coniuge restava titolare esclusivo dei beni acquistati in costanza di matrimonio.

Questa situazione però si rifletteva negativamente sulle dinamiche sociali, dove molto spesso nella famiglia italiana il marito era l’unico a lavorare e a produrre reddito mentre la moglie si dedicava alla casa e all’educazione dei figli. Per il Legislatore questo poneva in una situazione di svantaggio e di dipendenza economica il coniuge non lavoratore. D’altronde era anche grazie al tempo dedicato dalla moglie alla casa e ai figli che il marito poteva concentrarsi pienamente sulla propria attività lavorativa.

Nell’intento di dare esecuzione ai principi costituzionali di uguaglianza giuridica e morale tra i coniugi nonché con la volontà di riconoscere piena tutela ad ogni forma di lavoro, specialmente quello domestico, si decise di invertire totalmente la regola, stabilendo quale regime legale la comunione dei beni. In questo modo, di ogni acquisto compiuto dai coniugi, anche singolarmente, si avvantaggia anche l’altro e un simile meccanismo finiva per riconoscere una tutela anche al coniuge più debole economicamente, di norma rappresentato dalla moglie dedita al lavoro di casa.

E’ sotto gli occhi di tutti però che dal 1975 ad oggi le cose sono del tutto cambiate, non esiste più la famiglia patriarcale e molto spesso entrambi i coniugi lavorano e producono un proprio reddito, e per tutto questo sembrano ormai quantomeno anacronistiche le ragioni che imposero quale regime legale la comunione dei beni e non sono poche le voci degli addetti ai lavori che spingono per un ritorno alla separazione dei beni quale regime patrimoniale di base.

Lasciando da parte tali considerazioni, cerchiamo di capire come funziona la comunione legale dei beni e quali conseguenze ha nella stipula degli atti di compravendita.

Come funziona la comunione dei beni

Come detto, la legge prevede che, al momento del matrimonio, tra i coniugi si instauri automaticamente la comunione dei beni. Per evitare tale effetto automatico ci sono due strade:

  1. la prima è dichiarare, già nell’atto di matrimonio, la scelta per il regime di separazione;
  2. la seconda è quella di stipulare successivamente un atto notarile con la quale i coniugi dichiarano la propria volontà di passare alla separazione dei beni.

Non basta stipulare una convenzione matrimoniale ma è necessario che venga altresì annotata a margine dell’atto di matrimonio. Una volta stipulata la convenzione, il notaio la comunica all’ufficiale dello stato civile presso il Comune ove è stato celebrato il matrimonio e questi provvede ad eseguire tale pubblicità. Solo dopo tale adempimento il cambio di regime patrimoniale sarà opponibile ai terzi.

Tutto ciò si riflette anche sull’attività notarile perchè il notaio incaricato della stipula di una compravendita non potrà limitarsi a effettuare le sole verifiche ipotecarie e catastali ma dovrà altresì chiedere alle parti quale sia il loro regime patrimoniale perché, come vedremo, c’è una particolare disciplina da rispettare nel caso di soggetti sposati in comunione legale dei beni.

Come funziona la separazione dei beni

Se una persona vuole acquistare un immobile ed è sposata in regime di separazione dei beni, non si pongono grandi problemi.

Se compra da solo, l’immobile sarà intestato in ogni caso solo a lui e al suo coniuge non spetterà nulla. Se invece vogliono comprarlo insieme, è necessario che entrambi stipulino e firmino l’atto di compravendita e solo in questo caso diventeranno comproprietari dell’immobile acquistato.

Se invece si è sposati in comunione dei beni, anche se a comprare sia solo uno dei due, di tale acquisto si avvantaggerà anche il coniuge non acquirente, pur non avendo stipulato e firmato l’atto di compravendita. Questo è il meccanismo di acquisto automatico previsto dall’art. 177 c.c. in forza del quale “gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio costituiscono oggetto della comunione, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali”, ipotesi di cui a breve parleremo.

Come comportarsi in caso di vendita

Come abbiamo spiegato, se Tizio è sposato in comunione dei beni e compra da solo un immobile, salvo che si tratti di bene personale, questo finisce in comunione.

A differenza della comunione ordinaria, la comunione dei beni viene definita una “comunione senza quote”, in quanto finchè perdura ciascun coniuge non può dirsi titolare di una quota di comproprietà e non ne può disporre autonomamente, ma potrà farlo solo allo scioglimento della stessa. Se fosse uguale alla comunione ordinaria, ciascun comproprietario potrebbe cedere la propria quota autonomamente. L’unico modo per poterlo fare è quindi procedere prima della vendita alla stipula di una  separazione dei beni.

Per intenderci se due coniugi in separazione comprano un immobile insieme, sono comproprietari 1/2 ciascuno; se due coniugi in comunione comprano un immobile, questo finisce semplicemente in comunione dei beni, e potranno ritenersi effettivamente titolari della quota di 1/2 solo al momento della scioglimento della stessa.

Occorre sapere poi che la legge stabilisce regole inderogabili per la gestione e l’amministrazione dei beni in comunione legale. L’ordinaria amministrazione spetta ai coniugi anche disgiuntamente, mentre tutto ciò che implichi straordinaria amministrazione, come ad esempio, la vendita, la permuta o la concessione di ipoteche, deve essere compiuto congiuntamente dai coniugi.

Un esempio di vendita

Luisa ha sposato nel 1990 Filippo e sono ancora coniugati in comunione dei beni. Nel 1995 la sola Luisa aveva acquistato un immobile da Giorgio, bene che è quindi finito in comunione dei beni. Oggi è intenzione di Luisa vendere tale immobile ma per farlo dovrà intervenire e sottoscrivere l’atto anche Filippo perchè trattasi di atto di vendita di un bene in comunione dei beni anche se, all’epoca, a sottoscrivere l’atto di acquisto era stata solo Luisa.

Il notaio incaricato della stipula quindi non potrà fare affidamento solo sulle risultanze de registri immobiliari e del catasto ma dovrà accertarsi presso le parti anche del loro regime patrimoniale per sapere a chi spetta la legittimazione a stipulare l’atto stesso. Il tutto perchè soprattutto in passato non si indicava in atto il regime patrimoniale delle parti come oggi impone la legge (in realtà l’art. 2659 c.c. impone l’indicazione del regime nella sola nota di trascrizione ma la prassi notarile consolidata lo riporta anche in atto), e quindi il notaio che voglia accertarsi della legittimazione a vendere, dovrà chiedere se chi aveva acquistato all’epoca fosse in comunione dei beni o meno perchè in caso di risposta affermativa, sarà necessario il consenso anche dell’altro coniuge.

Tutto ciò è molto importante che venga rispettato perchè la legge stabilisce che gli atti compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro possono essere annullati (art. 184 c.c.).

I beni che rimangono personali

Non tutti i beni finiscono in comunione dei beni e la legge (art. 179 c.c.) stabilisce i casi e le modalità con le quali far risultare che un bene sia personale ad uno solo dei coniugi. Ma cerchiamo di capire quali sono.

  1. tutti i beni acquistati prima del matrimonio;
  2. i beni che uno dei coniugi abbia ricevuto per successione o donazione. In questo caso, anche se ricevuti in costanza di matrimonio, la legge blocca il meccanismo della comunione legale, per la particolare provenienza del bene stesso. Tali beni finiscono in comunione solo se il de cuius nel testamento o il donante in atto abbiano specificamente attribuito tali beni alla comunione, cosa che però nel 99,99 % dei casi non avviene;
  3. i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge, si pensi al vestiario o ad un accessorio come l’orologio da polso;
  4. i beni che servono all’esercizio della professione del coniuge, si pensi allo studio del coniuge avvocato;
  5. i beni ottenuti a titolo di risarcimento danni nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa;
  6. i beni acquistati con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all’atto di acquisto. Questa è forse l’ipotesi più importante di esclusione: si pensi al caso di vendita di un immobile ricevuto per successione e al successivo acquisto di un altro immobile con il ricavato della suddetta vendita. Anche questo nuovo immobile sarà personale per un fenomeno definito di “surrogazione reale” (sostituisco un bene personale con un altro). Per far sì che si verifichi tale surrogazione è però necessario che si dichiari espressamente in atto la natura personale del bene.

La legge per evitare contestazioni e facili elusioni della disciplina della comunione legale dei beni, nel caso di acquisto di beni immobili di cui alle indicati ai punti 3), 4) ed 6) impone che l’effettiva natura personale del bene acquistato sia confermata anche dal coniuge non acquirente.

In poche parole è necessario che quest’ultimo presenzi all’atto di compravendita al solo fine di confermare espressamente la dichiarazione resa dal coniuge acquirente. La Cassazione ha però precisato che tale conferma è una mera dichiarazione di scienza e non vale ad escludere il bene dalla comunione se in realtà il bene acquistato non è personale.

Per intenderci se Carlo che fa il medico acquista un immobile da adibire a studio dichiarando che è suo bene personale perchè utile all’esercizio della sua professione e la moglie Luisa conferma tale dichiarazione in atto, ma poi tale immobile viene adibito ad abitazione coniugale, anche se Luisa ha confermato la natura personale, l’immobile finisce lo stesso in comunione dei beni.

Questo è il risultato di un consolidato orientamento della Cassazione (Cass. S.U. n. 22755/2009) secondo il quale sarebbe invalido il cosiddetto “rifiuto del co-acquisto”, ovvero non si può dichiarare di voler escludere un immobile che dovrebbe invece finire in comunione dei beni. Se si ammettesse un simile risultato si finirebbe per svilire l’intento di tutela posto alla base della comunione dei beni e, afferma la Cassazione, se i coniugi intendono raggiungere tale obiettivo, possono sempre stipulare una convenzione di separazione dei beni.

Conclusioni de iure condendo

In queste poche righe sono stati analizzati solo gli aspetti salienti del regime della comunione legale dei beni ma come è facile immaginare la sua applicazione diretta produce non solo difficoltà pratiche evidenti ma è anche oggetto sempre più spesso di contenzioso giudiziale il che probabilmente non è più controbilanciato dalle esigenze di tutela insite nella riforma del diritto di famiglia del 1975.

Tutto questo deve far riflettere il Legislatore al fine di capire se abbia ancora ragion d’essere prevedere quale regime di base la comunione legale dei beni o se forse non sia necessario pensare di tornare al regime previgente della separazione dei beni.

Questo non significa abbassare le tutele o disconoscere l’uguaglianza fra i coniugi ma semplicemente semplificare la normativa, abbattere il contenzioso e adeguarla al radicale cambiamento del tessuto sociale.

Notaio Massimo d’Ambrosio

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