Quanto costa un pozzo artesiano?

Fare un pozzo artesiano può essere la soluzione ideale per garantire l’approvvigionamento idrico di case isolate o dove la rete idrica presenta carenze e malfunzionamenti. Se quindi soffri perchè non hai acqua sufficiente per i tuoi bisogni domestici o produttivi, potrebbe interessarti sapere quanto costa fare un pozzo artesiano ed ecco per te la nostra piccola guida.

Cosa è un pozzo artesiano e perchè conviene farlo

Il pozzo artesiano è un pozzo in cui l’acqua sgorga naturalmente, senza l’aiuto di mezzi meccanici come le pompe sommerse. Tali pozzi attingono l’acqua da una falda denominata artesiana. Questa falda consiste in uno strato d’acqua profondo nel quale il flusso idrico avviene grazie alla pressione esercitata dai due strati impermeabili che delimitano la falda stessa.

L’acqua tende a risalire da sola, arrivando fino alla cosiddetta linea piezometrica, cioè quel punto in cui la pressione dell’acqua è nulla. I pozzi artesiani, quindi, vanno a perforare la parte superiore della falda per provocare la risalita dell’acqua verso l’alto, fino al livello statico della falda stessa.

In quel punto l’acqua inizierà a sgorgare nel suolo. La risalita dell’acqua è condizionata dalla pressione nella falda: più è alta, maggiore sarà la capacità dell’acqua di risalire in superficie.

Il pozzo artesiano è in genere profondo e di piccolo diametro e si realizza grazie a trivelle montate su camion o cingolati. La profondità di un pozzo artesiano può arrivare fino a 100 metri in virtù della profondità stessa della falda acquifera artesiana.

L’acqua che sgorga in superficie è spesso potabile. Una caratteristica fondamentale del pozzo artesiano risiede nella possibilità di scelta dei punti della falda da sigillare e quelli da mantenere liberi.

In questo modo, stabilendo un equilibrio tra falde da chiudere e falde da mantenere aperte, il pozzo artesiano risolve varie esigenze. Se il pozzo viene creato semplicemente per irrigare i campi, si avrà la necessità di andare a captare tutte le falde per aumentare la portata del pozzo.

Se si ha bisogno di un pozzo d’acqua per uso domestico, si andranno a selezionare le falde acquifere che presentano una maggiore qualità e un minor rischio di inquinamento.

Prima di illustrare i costi di un pozzo domestico, occorre comprendere la differenza che intercorre tra un pozzo artesiano e un pozzo freatico. Quest’ultimo è un pozzo che attinge da una falda freatica che contiene al suo interno acqua non in pressione.

È un falda poco profonda in cui il flusso avviene a pelo libero e difficilmente raggiunge la superficie. In questo caso si rende necessario l’utilizzo di pompe sommerse in grado di sollevare l’acqua fino al terreno. Il pozzo freatico è di grandi dimensioni e non supera i 20 metri di profondità.

Proprio per questa caratteristica, di solito l’acqua di un pozzo freatico serve semplicemente per irrigare i campi o per tutti quegli scopi che non necessitano di acqua potabile, come gli scarichi dei wc.

Il pozzo freatico è di solito il pozzo che si trova nei giardini, nei chiostri dei conventi o nelle tenute di compagna rivestito da pietre o mattoni.

Senza tener conto dei costi per la realizzazione dei pozzi artesiani, si deve tener presente che i pozzi artesiani assicurano una portata maggiore di acqua rispetto ai pozzi freatici e garantiscono una resa costante e continuativa.

È la soluzione ideale per chi necessita di notevoli quantità di acqua sia per uso civile, agricolo o industriale. L’acqua dei pozzi artesiani, grazie alla buona portata, è utilizzata anche negli acquedotti e per servire impianti antincendio.

Un altro vantaggio fondamentale relativo al pozzo artesiano risiede nella minori necessità di manutenzione. Questo è un elemento essenziale di fronte alla decisione del pozzo da realizzare, oltre alle valutazioni relative a prezzi e costi di realizzazione.

Realizzare un pozzo artesiano: quali lavori fare e a quale costo?

Una volta presa la decisione di realizzare un pozzo, ci si interroga su quanto costa fare un pozzo artesiano e quali possano essere i prezzi di realizzazione al metro. Prima di soffermarci sui costi e le autorizzazioni, occorre però considerare un fattore fondamentale.

In origine, la costruzione di un pozzo era realizzata con metodi artigianali e questa pratica era molto pericolosa per l’operatore addetto allo scavo all’interno della buca. In questo modo, l’operatore era costantemente esposto al rischio di crolli del terreno che ne potevano ostacolare la risalita o addirittura impedirgli di tornare in superficie. Alla luce di tutto questo, si sconsiglia la realizzazione di un pozzo artesiano fai da te.

Affidarsi ad una ditta seria e competente è un elemento fondamentale. Bisogna stabilire per prima cosa il fine ultimo del pozzo ovvero se l’acqua verrà utilizzata per l’irrigazione oppure per scopi civili. Il personale specializzato verificherà la profondità della falda acquifera attraverso le trivelle usate per i pozzi artesiani.

Una volta individuata la falda acquifera, verranno effettuate delle analisi per verificarne la qualità: un fattore essenziale se si necessita di acqua potabile. La falda acquifera verrà quindi isolata attraverso dei tubi in PVC delle stesse dimensioni della buca (profonda, ma stretta) creata dalla trivella.

A questo punto, le fasi salienti della creazione di un pozzo artesiano si sono concluse. Non resta altro che circondare il buco con un anello in PVC che servirà da base per i mattoni che andranno posizionati intorno (nel caso si voglia creare quell’aspetto gradevole tipico dei pozzi).

Quanto mi costa fare un pozzo artesiano?

È la prima domanda che ci si fa quando si decide di realizzarlo. Prima di stabilire le fasce di prezzo relative al costo al metro di un pozzo artesiano o chiavi in mano, occorre tener presente un elemento molto importante.

Sarà necessario richiedere un preventivo per il pozzo artesiano a varie aziende per poter poi confrontare le varie proposte e decidere in tutta autonomia. I costi per la realizzazione di un pozzo artesiano variano in base alla stratigrafia del suolo, ovvero alla sua composizione, ai materiali e alla profondità dello scavo da effettuare.

Proprio per la presenza di queste variabili, i costi dei pozzi artesiani variano da un’azienda all’altra. Le incognite sono molte per riuscire a stabilire quanto costa trivellare un pozzo artesiano.

In generale, si può affermare che per la creazione di un pozzo poco profondo “chiavi in mano” sono necessari dai 2.000,00 € ai 3.000,00 €, tralasciando tutte le variabili possibili relative alla natura del terreno e ai vari permessi e autorizzazioni necessarie.

Per quanto riguarda i costi per metro lineare, nel caso si vogliano realizzare pozzi artesiani di particolare profondità, occorre fare delle distinzioni. Un pozzo artesiano che debba essere realizzato su di un terreno situato in una zona alluvionale con falde relativamente prossime alla superficie, potrà avere un costo di trivellazione approssimativamente di 15,00 € al metro (in totale si ipotizza una spesa vicina ai 1.000,00 €). Una zona rocciosa e difficile da penetrare vedrà lievitare molto il costo di trivellazione al metro del pozzo artesiano (la cifra di solito si avvicina ai 90,00 € al metro).

Fare un pozzo artesiano: autorizzazioni e permessi

La normativa per realizzare un pozzo artesiano è molto complessa e si rifà al Regio Decreto 1775/1933. Tale decreto stabilisce che il proprietario del terreno può estrarre e utilizzare liberamente le acque dal suolo purché siano rispettate le distanze dai confini, dai tubi preesistenti e che venga realizzato a regola d’arte.

Questa è la norma base che regolamenta la materia. Nel corso degli anni a questa legge si sono aggiunti tutta una serie di permessi e autorizzazioni da chiedere sia alle Province che ai Comuni. Per essere sicuri di realizzare il pozzo artesiano secondo le normative vigenti, occorre verificare le disposizioni della Regione d’appartenenza.

Prima di procedere alla costruzione del pozzo, occorre verificare presso l’Ufficio Tecnico Comunale se la propria zona è soggetta a vincoli idrogeologici e munirsi quindi delle necessarie autorizzazioni.

In generale, per chiedere i permessi relativi alla costruzione del pozzo domestico occorre inviare all’Ufficio Gestione delle Acque Sotterranee della propria Regione una serie di documenti. Il primo è relativo alla comunicazione di voler realizzare un pozzo ad uso domestico, tramite apposito modulo prestampato.

È necessario allegare la planimetria del terreno con evidenziato il punto in cui si intenderà procedere allo scavo. Per ottenere tutti i permessi relativi alla costruzione del pozzo artesiano si dovrà allegare copia di un documento d’identità insieme all’atto di proprietà del terreno, oltre che fornire una data presunta di inizio lavori.

Se la Regione non risponde entro 60 giorni, vale la regola del silenzio assenso. L’azienda che esegue il lavoro dovrà poi rilasciare un documento di avvenuta perforazione, avendo cura di dichiarare la natura del pozzo e del terreno.

permessi relativi al pozzo artesiano sono da richiedere anche per quanto riguarda l’utilizzo dell’acqua. Ogni anno va inoltrata la dichiarazione sul volume d’acqua prelevato durante l’anno precedente all’organo competente che ha rilasciato l’autorizzazione. Tale prelievo rimane comunque gratuito. Il volume può essere stimato oppure, in presenza di un contatore, corrisponde a quanto effettivamente consumato.

Caparra confirmatoria, caparra penitenziale e clausola penale. Quali le differenze?

Nel Diritto Civile Italiano, la Caparra è una somma di denaro o una quantità d’altre cose fungibili, versata a titolo di reciproca e mutua garanzia dell’esatto adempimento del contratto ovvero come corrispettivo per il caso di recesso dal contratto.

La sua funzione è quindi quella di prevedere una sorta di risarcimento immediato nel caso di inadempienza contrattuale e in caso di adempimento (quindi mantenimento esatto dei patti concordati) deve essere restituita o imputata alla prestazione dovuta.

Al momento della redazione della Proposta di Acquisto e successivamente, alla sottoscrizione del Preliminare di Compravendita (Compromesso), le parti pattuiscono che una versi all’altra una somma di denaro a titolo di Caparra, con funzioni ed effetti diversi a seconda che si tratti di Caparra Confirmatoria o Caparra Penitenziale, di differente natura rispetto alla Clausola Penale.

Vediamo quali sono le differenze, partendo dalle norme previste dal codice civile, che regola i due tipi di Caparra previste agli artt. 1385 (Confirmatoria) e 1386 (Penitenziale).

CAPARRA CONFIRMATORIA

La Caparra Confirmatoria ha lo scopo di garantire l’adempimento delle prestazioni contrattuali, costituendo allo stesso tempo un anticipo sul risarcimento in caso di inadempimento.

Più precisamente, nel caso in cui le parti eseguano correttamente le loro prestazioni, le stesse hanno la facoltà di stabilire se restituirla a chi l’ha versata o imputarla a titolo di acconto prezzo; nel caso di inadempimento, invece, la funzione risarcitoria della Caparra è regolata dall’art. 1385 c.c. in relazione al soggetto inadempiente.

Se, infatti, se chi non adempie alla propria prestazione è chi ha versato la Caparra, l’altra parte ha diritto a trattenerla, esercitando il diritto di recesso dal contratto, qualora si ritenga così risarcito del danno subito.

Se al contrario, ad essere inadempiente è colui che ha ricevuto la Caparra, la controparte ha diritto di recedere dal contratto ed esigere un importo pari al doppio di quella versato, al fine di reintegrare il danno subito.

In entrambi i casi la parte adempiente può, in alternativa, decidere di far valere la risoluzione del contratto e di chiedere il risarcimento del danno, indipendentemente dall’importo della Caparra che potrà essere imputata in conto risarcimento o eventualmente da questo scomputata, in base all’esito del giudizio che il danneggiato dovrà intentare per l’accertamento e la quantificazione del danno.

CAPARRA PENITENZIALE

Al momento della stipula del contratto è possibile anche prevedere il versamento di una Caparra Penitenziale, in caso di recesso dal contratto di una delle parti; la differenza con la Caparra Confirmatoria, pertanto, è nella causa, cioè nel fatto che la Confirmatoria è prevista in caso di inadempimento contrattuale mentre la Penitenziale in caso di esercizio – ove legittimato – del diritto di recesso.

La Caparra Penitenziale, dunque, è il corrispettivo del recesso, cioè il Prezzo che una parte deve sopportare per esercitare un diritto che, in ogni caso, pregiudica le aspettative dell’altra nella stabilità del contratto.

Secondo il dettato dell’art. 1386, se nel contratto viene stipulato il diritto di recesso per una o per entrambe le parti, la Caparra ha la sola funzione di corrispettivo del recesso; in questo caso, il recedente perde la Caparra data, o deve restituire il doppio di quella che ha ricevuta. 

SE NON E’ SPECIFICATO IL TIPO DI CAPARRA

Qualora nel contratto preliminare sottoscritto non fosse specificato il tipo di Caparra scelto dalle parti, questa si intenderà versata a titolo di Caparra Confirmatoria ex art. 1385 c.c.

CLAUSOLA PENALE

Per completezza di informazione, entriamo anche brevemente nel merito della Clausola Penale o semplicemente “Penale”, comunemente inserita nei più svariati contratti, con la quale si conviene che, in caso di mancato o ritardato adempimento, la parte responsabile debba versare all’altra una determinata somma, il cui importo è stabilito in contrattola differenza con la Caparra Confirmatoria, pure prevista per l’ipotesi d’inadempimento, sta dunque nel fatto che la Caparra è versata in anticipo rispetto all’esecuzione del contratto, mentre il versamento della penale è eventuale e dovuto solo nel caso di inadempimento. Lo scopo della penale è quello di limitare il risarcimento alla somma pattuita nella clausola, salvo diversa volontà delle parti e, allo stesso tempo, di agevolare l’eventuale giudizio per il pagamento della penale che non dovesse essere versata spontaneamente dal soggetto inadempiente; il codice civile prevede infatti, all’art. 1382, che la penale è dovuta indipendentemente dalla prova del danno subito dalla parte adempiente.

Investire in Puglia con i finanziamenti Regionali del TITOLO II

Il Titolo II – Capo III – è uno strumento, attuato dalla Regione Puglia, per facilitare lo sviluppo delle attività economiche in questa regione.

Ne possono beneficiare le micro imprese che occupano meno di 10 persone e che realizzano un fatturato annuo o un totale di bilancio annuo non superiori a 2 milioni di euro, le imprese di piccole dimensioni che occupano meno di 50 persone e che realizzano un fatturato annuo o un totale di bilancio non superiori a 10 milioni di euro e le imprese di medie dimensioni che occupano meno di 250 persone e realizzano un fatturato annuo non superiore a 50 milioni di euro oppure il totale di bilancio annuo non supera i 43 milioni di euro.

Le imprese sopra elencate devono operare in una delle seguenti categorie:

  1. Imprese artigiane, costituite anche in forma cooperativa o consortile;
  2. Imprese che realizzano programmi di investimento nel settore del commercio:
  3. esercizi commerciali di vendita al dettaglio e all’ingrosso classificati esercizi di vicinato (superficie di vendita non superiore a 250mq);
  4. esercizi commerciali di vendita al dettaglio e all’ingrosso classificati M1 (medie strutture con superficie di vendita da 251 a 600 mq);
  5. esercizi commerciali di vendita al dettaglio d all’ingrosso classificati M2 (medie strutture con superficie di vendita da 601 a 1500mq);
  6. servizi di ristorazione di cui al gruppo “56” della “Classificazione delle Attività economiche ATECO 2007”, ad eccezione delle categorie “56.10.4” e “56.10.5”;
  7. attività di commercio elettronico (per commercio elettronico si intende l’attività commerciale svolta la tramite la rete internet);
  8. sezione “C”: imprese che realizzano investimenti riguardanti il settore delle attività manifatturiere – “Classificazione delle Attività economiche ATECO 2007”;
  9. sezione “F”: settore delle costruzioni – “Classificazione delle Attività economiche ATECO 2007”;
  10. sezione “J”: settore dei servizi di comunicazione ed informazione – “Classificazione delle Attività economiche ATECO 2007”;
  11. sezione “Q”: sanità e assistenza sociale – “Classificazione delle Attività economiche ATECO 2007”.

Sono invece escluse le aziende operanti nei settori, pesca e acquacoltura, costruzione navale, industria carboniera, siderurgia, fibre sintetiche, attività connesse con la produzione primaria (agricoltura e allevamento), trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli in specifici casi.

Sono ammissibili progetti di investimento di importo non inferiori a  30.000 per la creazione di una nuova unità produttiva, l’ampliamento di una unità produttiva esistente, diversificazione della produzione di uno stabilimento esistente per ottenere prodotti mai fabbricati precedentemente e il cambiamento fondamentale del processo di produzione complessivo di un’unità produttiva esistente.

Sono ammesse le spese per:

a)    l’acquisto del suolo aziendale e sue sistemazioni entro il limite del 10% dell’importo dell’investimento in Attivi materiali;

b)    opere murarie e assillabili;

c)    acquisto di macchinari, impianti e attrezzature varie nuovi di fabbrica;

d)    investimenti finalizzati al miglioramento delle misure di prevenzione dei rischi, salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

Mentre non sono ammissibili le spese notarili e quelle relative a imposte e tasse, le spese relative all’acquisto di scorte, le spese relative all’acquisto di macchinari attrezzature usati, titoli di spesa regolati in contanti, le spese di pura sostituzione, le spese di funzionamento in generale, le spese in leasing, tutte le spese non capitalizzate, le spese sostenute con commesse interne di lavorazione, anche se capitalizzate ed indipendentemente dal settore in cui opera l’impresa, titoli di spesa con importo complessivo dei beni inferiore a € 500,00,acquisto di beni non strettamente funzionali non a uso esclusivo dell’attività d’impresa, acquisto di beni facilmente deperibili, acquisto di mezzi mobili non sono ammissibili le spese di IPT, messa su strada, immatricolazione, le forniture attraverso un contratto “chiavi in mano”.

Il Titolo II prevede quindi un contributo in conto Impianti determinato sul montante degli Interessi di un finanziamento concesso da un Soggetto Finanziatore. L’intensità del contributo non potrà superare il 35% per le medie imprese ed il 45% per le piccole e microimprese.

Il contributo in conto impianti calcolato sul montante degli interessi comprenderà l’eventuale preammortamento per una durata massima di 12 mesi per i finanziamenti destinati all’acquisto di macchinari ed attrezzature ed una durata massima di 24 mesi per finanziamenti destinati all’ampliamento dello stabilimento.

Qualunque sia la maggior durata del contratto di finanziamento, il contributo in conto impianti determinato sul montante degli interessi sarà calcolato con riferimento ad una durata massima del finanziamento (al netto dell’eventuale periodo di preammortamento) di:

  • sette anni per i finanziamenti destinati alla creazione, all’ampliamento e/o all’ammodernamento dello stabilimento;
  • cinque anni per i finanziamenti destinati all’acquisto di macchinari, attrezzature, brevetti e licenze.

Le agevolazioni saranno calcolate su un importo finanziato massimo di € 4.000.000 in caso di medie imprese e € 2.000.000 in caso di piccole e microimprese.

Per gli investimenti di nuovi macchinari ed attrezzature potrà essere erogato un contributo aggiuntivo in conto impianti che non potrà essere superiore al 20% per un importo massimo erogabile di € 800.000 per le medie imprese e € 400.000 per le piccole e microimprese.

Per le imprese che hanno conseguito il rating di legalità, l’import massimo del contributo in conto impianti è elevato rispettivamente a € 850.000 e a € 450.000.

Registrazione del contratto preliminare e sanzioni

La registrazione del contratto preliminare è un passaggio importante della compravendita immobiliare: il documento, seppur non obbligatorio, vincola entrambe le parti, ovvero chi desidera vendere casa e chi la vuole acquistare, alla compravendita immobiliare e stabilisce le condizioni dell’accordo.

Tale operazione è regolamentata dalla normativa vigente e il mancato rispetto delle disposizioni può comportare pesanti sanzioni.

Se sei in procinto di comprare casa, prosegui nella lettura e scopri quando è obbligatorio registrare il contratto preliminare, come effettuare la registrazione e quali sono le conseguenze in caso di errore.

In quali casi registrare il contratto preliminare

Il contratto preliminare di compravendita è un documento vincolante che sancisce le condizioni che venditore e acquirente si impegnano a rispettare nel vendere e comprare casa. La sua redazione è un passaggio importante e delicato, per questo, che tu sia il compratore o il venditore, è fondamentale avere accanto un professionista esperto che possa aiutarti a districarti tra termini tecnici e clausole.

Partiamo da una premessa: la registrazione del contratto preliminare presso l’Agenzia delle Entrate è obbligatoria. Non è, quindi, consentito scegliere se eseguirla o meno. Si potrebbe, in teoria, evitare di firmare il contratto preliminare per stipulare direttamente il contratto definitivo di compravendita (il rogito), ma sarebbe rischioso e molto difficile.

La registrazione deve avvenire entro 20 giorni dalla stipula del contratto: in caso di ritardo si dovranno sostenere dei costi aggiuntivi e l’ammontare della sanzione sarà dipendente dall’entità del ritardo…

Il limite è di 30 giorni, invece, nel caso in cui il contratto venga redatto alla presenza di un notaio, nella forma di scrittura privata oppure dell’atto pubblico.

Come effettuare la registrazione del contratto

La registrazione del contratto preliminare per una compravendita immobiliare prevede alcuni precisi passaggi.

Prima di registrare il contratto preliminare presso l’Agenzia delle Entrate il compratore dovrà effettuare un versamento con il modello F24 per un importo fisso pari a 200 euro da applicare ogni 4 facciate oppure ogni 100 righe del compromesso.

Se l’acquirente ha depositato una caparra confirmatoria, l’imposta di registro sarà maggiorata dello 0,5% della caparra stessa, se invece le parti decidono per il versamento di un acconto sull’acquisto, ai 200,00 Euro si dovrà aggiungere il 3% dello stesso.

La registrazione del contratto preliminare può essere fatta soltanto in presenza della ricevuta di pagamento dell’imposta, sia dall’acquirente sia dall’agente immobiliare incaricato.

La procedura richiede due copie del documento con firma originale. Su ogni copia del contratto vanno applicate marche da bollo con questo criterio: per ogni 4 facciate di 100 righe occorre una marca da bollo da 16 euro.

Per consentire il versamento delle suddette somme, tramite modello F24, sono stati istituiti i seguenti codici tributo:

  • 1550codice tributo per l’imposta di registro, che sostituisce i codici tributo previsti dall’F23 e marcati con le sigle 104T, 105T e 109T
  • 1551: codice tributo per la sanzione sull’imposta di registro (ravvedimento)
  • 1552codice tributo per l’imposta di bollo. A differenza di quanto accadeva per il modello F23, dove si poteva versare solo l’imposta di registro, il modello F24 consente il pagamento diretto delle marche da bollo. In questo modo, non occorre più applicare sul contratto le marche da bollo fisiche, ma è sufficiente assolvere all’onere tramite quelle digitali rappresentate dal codice
  • 1553: codice tributo per la sanzione sull’imposta di bollo (ravvedimento)
  • 1554: codice tributo per gli interessi

Quali sono le sanzioni in caso di mancata registrazione del contratto preliminare

Se il contratto preliminare di compravendita non viene registrato entro i termini imposti dalla normativa vigente, si va incontro a sanzioni il cui ammontare è variabile in base all’entità del ritardo. Se la registrazione avviene entro 90 giorni, la sanzione sarà pari al 15% dell’ammontare dovuto. La percentuale sale al 24% se, invece, la registrazione avviene entro un anno dalla scadenza.

Le sanzioni sono più salate nel caso in cui il documento stipulato non venga registrato affatto: la somma può variare dal 120% al 240% dell’imposta dovuta.

Categorie catastali A, B, C, D, E e F: cosa sono e quali sono le differenze

Le categorie catastali sono dei codici che distinguono gli immobili in base alle loro caratteristiche strutturali e costruttive e al loro uso. Sono divise in sei gruppi, ognuno dei quali è composto da molteplici sottocategorie.

Quali sono le categorie catastali

Le categorie catastali previste dal nostro ordinamento sono sei: A, B, C, D, E e F. Ognuna di esse ricomprende al proprio interno immobili che hanno caratteristiche simili, meglio individuati con divisioni interne a ciascuna categoria.

Ad esempio, nella categoria A rientrano, in generale, le abitazioni. Le varie sottocategorie, ad esempio A/1, A/2, A/3 e così via, individuano poi la specifica tipologia di abitazione di cui si tratta.

Categorie catastali: a cosa servono

Le categorie catastali possono avere molteplici finalità. Quella principale, tuttavia, è di dare una logica all’individuazione della rendita catastale di un certo immobile e di modulare la tassazione a seconda delle sue caratteristiche, della destinazione dello stesso e dell’uso che ne viene formalmente fatto.

Destinazione ordinaria e speciale 

Prima di analizzare nel dettaglio quali immobili vanno ricompresi in una o in un’altra categoria e sottocategoria, appare opportuno segnalare che le diverse categorie catastali possono essere suddivise in due raggruppamenti:

  1. gli immobili a destinazione ordinaria sono quelli riconducibili alle categorie A, B, e C;
  2. gli immobili a destinazione straordinaria sono quelli riconducibili alle categorie D, E e F.

Categoria catastale A

La categoria catastale A, come accennato, contempla le abitazioni e si suddivide nelle seguenti sottocategorie:

  • A/1: abitazioni di tipo signorile;
  • A/2: abitazioni di tipo civile;
  • A/3: abitazioni di tipo economico;
  • A/4: abitazioni di tipo popolare;
  • A/5: abitazioni di tipo ultrapopolare;
  • A/6: abitazioni di tipo rurale;
  • A/7: abitazioni in villini;
  • A/8: abitazioni in ville;
  • A/9: castelli, palazzi di eminenti pregi storici o artistici;
  • A/10: studi e uffici privati;
  • A/11: alloggi e abitazioni tipiche dei luoghi.

Categoria catastale B 

Nella categoria catastale B rientrano gli immobili facenti parte del patrimonio immobiliare urbano, così suddivisi:

  • B/1: collegi, orfanotrofi, conventi, seminari, ricoveri, ospizi, caserme;
  • B/2: ospedali e case di cura senza fine di lucro;
  • B/3: riformatori e prigioni;
  • B/4: uffici pubblici;
  • B/5: laboratori scientifici e scuole;
  • B/6: accademie, gallerie, musei, pinacoteche, biblioteche (che non si trovano all’interno di palazzi di pregio e castelli appartenenti alla categoria A/9);
  • B/7: oratori e cappelle non destinate all’esercizio pubblico del culto;
  • B/8: magazzini sotterranei per depositi di derrate.

Categoria catastale C

Nella categoria C rientrano gli immobili di uso commerciale e terziario. Le sue sottocategorie sono:

  • C/1: locali commerciali;
  • C/2: locali di deposito e magazzini;
  • C/3: laboratori per arti e mestieri;
  • C/4: locali e fabbricati per esercizi sportivi senza fine di lucro;
  • C/5: stabilimenti di acque curative e balneari senza fine di lucro;
  • C/6: autorimesse, rimesse, scuderie e stalle senza fine di lucro;
  • C/7: tettoie aperte o chiuse.

Categoria catastale D

La categoria catastale D ricomprende gli immobili speciali a fine produttivo o terziario, ovverosia:

  • D/1: opifici;
  • D/2: alberghi con fine di lucro;
  • D/3: sale per spettacoli e concerti, cinematografi e teatri con fine di lucro;
  • D/4: ospedali e case di cura con fine di lucro;
  • D/5: istituti di assicurazione, cambio o credito con fine di lucro;
  • D/6: locali e fabbricati per esercizi sportivi con fine di lucro;
  • D/7: fabbricati costruiti o adattati per le speciali esigenze di un’attività industriale e non suscettibili di destinazione diversa senza radicali trasformazioni;
  • D/8: fabbricati costituiti o adattati per le speciali esigenze di un’attività commerciale e non suscettibili di destinazione diversa senza radicali trasformazioni;
  • D/9: edifici sospesi o galleggianti assicurati a punti fissi del suolo, ponti privati a pedaggio;
  • D/10: fabbricati rurali.

Categoria catastale E 

Anche la categoria E ricomprende immobili a destinazione speciale, in particolare:

  • E/1: stazioni per servizi aerei, marittimi, terrestri e di trasporto;
  • E/2: ponti comunali e provinciali a pedaggio;
  • E/3: fabbricati e costruzioni per esigenze pubbliche speciali;
  • E/4: recinti chiusi per esigenze pubbliche speciali;
  • E/5: fabbricati costituenti fortificazioni e loro dipendenze;
  • E/6: torri, semafori e fari per rendere d’uso pubblico l’orologio comunale;
  • E/7: fabbricati destinati all’esercizio pubblico dei culti;
  • E/8: costruzioni e fabbricati nei cimiteri, esclusi i sepolcri, i colombari e le tombe di famiglia;
  • E/9: edifici a destinazione particolare non compresi nelle categorie precedenti del gruppo E.

Categoria catastale F

Infine, fanno parte della categoria catastale F le unità immobiliari urbane che non sono idonee a produrre ordinariamente un reddito.

Le sottocategorie previste sono le seguenti:

  • F/1: aree urbane;
  • F/2: unità collabenti;
  • F/3: unità in corso di costruzione;
  • F/4: unità in corso di definizione;
  • F/5: lastrici solari;
  • F/6: fabbricato in attesa di dichiarazione;
  • F/7: infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione.

Come calcolare la redditività di un immobile

Per far sì che un investimento abbia successo e sia redditizio non basta fare supposizioni generiche e personali: calcola la redditività di un immobile e assicurati un acquisto che ti possa dare frutti negli anni a venire.

Valutazioni precise portano a un maggior rendimento dell’investimento

Gli investimenti non devono essere visti come un colpo di fortuna dall’esito quasi impossibile da prevedere; al contrario, quando si acquista un immobile con lo scopo di trarne un ritorno economico, è molto importante fare in anticipo le dovute valutazioni a breve e a lungo termine. Più si è in grado di effettuare valutazioni precise, maggiore sarà anche la precisione della previsione del rendimento del proprio investimento immobiliare.

Quando si parla di investimenti immobiliari, è sempre opportuno verificare che il proprio immobile sia davvero una fonte di reddito e non una spesa, altrimenti non ha senso tenerlo nel proprio portafoglio immobili ed è consigliabile venderlo al più presto.

E’ necessario ed opportuno ricercare una serie di informazioni prima di effettuare un acquisto importante come un immobile, per esempio analizzando l’appetibilità attuale della localizzazione dell’immobile e i potenziali cambiamenti attesi nel quartiere circostante. Ma l’informazione fondamentale che permette agli investitori di prendere una decisione, è senza dubbio il tasso di rendimento o di redditività di un immobile.

Scopri come calcolare il tasso di rendimento di un immobile

I 3 step per il calcolo della redditività di un immobile:

  • Calcolare il reddito lordo annuo dell’immobile
  • Sottrarre i costi operativi
  • Dividere per il prezzo d’acquisto

Vediamoli ora nel dettaglio.

Per prima cosa dovresti calcolare il reddito lordo annuo dell’immobile su cui si è investito

Il reddito lordo di un immobile è dettato principalmente dall’appetibilità alla locazione. In altre parole, quando si acquista un immobile come investimento, di solito se ne ricava un profitto semplicemente affittandolo a degli inquilini.

Per esempio, hai appena acquistato un immobile che vorresti dare in affitto ad un prezzo di €500/mese. Con questo canone di affitto, ti aspetterai di incassare esattamente 500 × 12 = €6.000 all’anno di reddito lordo prodotto dalla proprietà.

A questo punto, sottrai dal reddito lordo i costi operativi relativi alla proprietà

Detenere la proprietà di un immobile sottintende dei costi da sostenere, ovvero costi di manutenzione, assicurazione, tasse e spese di gestione dell’immobile. Una volta individuati e sommati questi costi, sottraili dalla somma dal reddito lordo che hai appena calcolato: questo è il reddito netto del fabbricato.

Per esempio, supponi che dopo aver stimato l’immobile da affittare, hai calcolato che dovrai sostenere ogni anno €500 di costi per la gestione dell’immobile, €250 di manutenzione, €200 di tasse e €350 di assicurazione. Dunque, €6.000 – €500 – €250 – €200 – €350 = €4.700, questo è il reddito netto della tua proprietà.

Ora dividi il reddito netto per il prezzo di acquisto dell’immobile

Il tasso di rendimento è dato dal rapporto tra il reddito netto della proprietà e il suo prezzo originario e viene espresso in forma percentuale.

Identificato il valore complessivo di acquisto e determinato il reddito netto, ora non ti resta che fare una semplice divisione tra il reddito netto e l’importo totale dell’acquisto dell’immobile.

La formula ti permette di determinare la redditività netta dell’operazione immobiliare: Redditività % = (Reddito Netto / Costo Complessivo Acquisto) x 100.

Supponi di aver acquistato l’immobile a €50.000. Fornito questo dato, hai tutti gli elementi necessari per determinare il tasso di rendimento.

Riprendendo i dati precedenti: €4.700 (reddito netto) / €50.000 (prezzo d’acquisto) = 0,094 = tasso di rendimento 9,4%.

Utilizza in modo intelligente il Tasso di Rendimento

Calcolato il tasso di rendimento, puoi iniziare a confrontare velocemente diverse opportunità di investimento simili a quella che vuoi intraprendere.

In breve, il tasso di rendimento rappresenta il ritorno percentuale stimato che si potrebbe ottenere con l’acquisto di un immobile. Per questo motivo, il tasso di rendimento è un ottimo indicatore che puoi utilizzare per confrontare un potenziale acquisto con altre opportunità di investimento simili.

Il tasso di rendimento permette di effettuare confronti semplici e veloci delle potenziali entrate provenienti da proprietà immobiliari acquistate a scopo di investimento e può essere utile per restringere la lista delle scelte possibili.

Per esempio, supponi di dover valutare l’acquisto di due immobili nello stesso quartiere: uno ha un tasso di rendimento del 9%, mentre l’altro del 14%. Questo confronto iniziale fa prediligere il secondo immobile, ovvero ci si aspetta che questo generi più denaro per ogni euro investito per acquistarlo.

Non usare il tasso di rendimento come unico indicatore per determinare la qualità di un investimento

Sebbene il tasso di rendimento dia la possibilità di confrontare due o più unità immobiliari, non è certo l’unico elemento da tenere in considerazione. Gli investimenti immobiliari possono essere abbastanza complicati: investimenti apparentemente semplici potrebbero diventare oggetto di speculazioni di mercato e di eventi imprevisti che vanno al di là della portata del semplice calcolo del tasso di redditività di un immobile. Come minimo, dovresti anche considerare il potenziale di crescita del reddito prodotto dall’immobile, come anche le variazioni di valore della proprietà stessa.

Per esempio, supponi di acquistare un immobile a €750.000, calcolando di guadagnare dalla messa a reddito dello stesso ogni anno €75.000, quindi ciò che ti aspetti è di avere un tasso di rendimento del 10%. Se il mercato immobiliare locale si modifica e il valore dell’immobile aumenta a €1.500.000, improvvisamente avrai un tasso di rendimento meno profittevole, pari al 5%. In questo caso potrebbe essere saggio vendere l’immobile e investire i relativi profitti in un altro investimento.

Utilizza il tasso di rendimento per giustificare il livello di reddito dell’immobile

Se si è a conoscenza del tasso di rendimento medio nella zona in cui è situato l’immobile, si può usare questa informazione per determinare il reddito che la proprietà deve produrre affinché l’investimento sia conveniente.

Per farlo, basta moltiplicare semplicemente il prezzo richiesto per l’acquisto, per il tasso di rendimento di immobili simili nella zona, trovando così il reddito netto consigliato.

Per esempio, se hai acquistato un immobile per €500.000 in una zona in cui la gran parte delle proprietà simili hanno un tasso di rendimento di circa l’8%, puoi calcolare il reddito consigliato moltiplicando 500.000 × 0,08 = €40.000. Questo rappresenta il reddito netto che l’immobile dovrebbe produrre ogni anno per avere un tasso di rendimento pari all’8%, quindi dovrai adeguare di conseguenza il relativo canone di locazione.

Calcolare la redditività di un immobile è necessario ma non sufficiente!

Il tasso di rendimento non tiene conto dei rischi futuri, dunque non si può fare affidamento solo sul tasso di redditività di un immobile per supporre che esso sia in grado di assicurare il reddito o il valore attuale.

L’immobile e i relativi affitti possono apprezzarsi o deprezzarsi nel corso del tempo e le spese potrebbero contestualmente aumentare facendo sballare i conti. Il tasso di rendimento per calcolare la redditività di un immobile può offrire una previsione sulla qualità dell’investimento da fare, ma non consente di fare alcun tipo di previsione sui rischi che riserva il futuro.

Nonostante ciò, trascorso ormai il periodo nero in cui gli immobili hanno visto un rapido deprezzamento dovuto alla recessione economica, l’investimento nel mattone resta ancora una delle migliori opportunità per chi vuole ottenere dai propri risparmi una rendita in costante aumento.

Tutto sulla comunione legale e sulla separazione dei beni

In Italia quando due persone si sposano tra di loro si instaura automaticamente il regime patrimoniale della comunione legale dei beni. Tale regime è entrato in vigore il 20 settembre 1975 con la l. 19 maggio 1975 n. 151 (cd. Riforma del diritto di Famiglia).

In precedenza, infatti, il regime legale era quello della separazione dei beni e per instaurare la comunione occorreva un apposito negozio di comunione convenzionale. Prima del 1975 di norma ciascun coniuge restava titolare esclusivo dei beni acquistati in costanza di matrimonio.

Questa situazione però si rifletteva negativamente sulle dinamiche sociali, dove molto spesso nella famiglia italiana il marito era l’unico a lavorare e a produrre reddito mentre la moglie si dedicava alla casa e all’educazione dei figli. Per il Legislatore questo poneva in una situazione di svantaggio e di dipendenza economica il coniuge non lavoratore. D’altronde era anche grazie al tempo dedicato dalla moglie alla casa e ai figli che il marito poteva concentrarsi pienamente sulla propria attività lavorativa.

Nell’intento di dare esecuzione ai principi costituzionali di uguaglianza giuridica e morale tra i coniugi nonché con la volontà di riconoscere piena tutela ad ogni forma di lavoro, specialmente quello domestico, si decise di invertire totalmente la regola, stabilendo quale regime legale la comunione dei beni. In questo modo, di ogni acquisto compiuto dai coniugi, anche singolarmente, si avvantaggia anche l’altro e un simile meccanismo finiva per riconoscere una tutela anche al coniuge più debole economicamente, di norma rappresentato dalla moglie dedita al lavoro di casa.

E’ sotto gli occhi di tutti però che dal 1975 ad oggi le cose sono del tutto cambiate, non esiste più la famiglia patriarcale e molto spesso entrambi i coniugi lavorano e producono un proprio reddito, e per tutto questo sembrano ormai quantomeno anacronistiche le ragioni che imposero quale regime legale la comunione dei beni e non sono poche le voci degli addetti ai lavori che spingono per un ritorno alla separazione dei beni quale regime patrimoniale di base.

Lasciando da parte tali considerazioni, cerchiamo di capire come funziona la comunione legale dei beni e quali conseguenze ha nella stipula degli atti di compravendita.

Come funziona la comunione dei beni

Come detto, la legge prevede che, al momento del matrimonio, tra i coniugi si instauri automaticamente la comunione dei beni. Per evitare tale effetto automatico ci sono due strade:

  1. la prima è dichiarare, già nell’atto di matrimonio, la scelta per il regime di separazione;
  2. la seconda è quella di stipulare successivamente un atto notarile con la quale i coniugi dichiarano la propria volontà di passare alla separazione dei beni.

Non basta stipulare una convenzione matrimoniale ma è necessario che venga altresì annotata a margine dell’atto di matrimonio. Una volta stipulata la convenzione, il notaio la comunica all’ufficiale dello stato civile presso il Comune ove è stato celebrato il matrimonio e questi provvede ad eseguire tale pubblicità. Solo dopo tale adempimento il cambio di regime patrimoniale sarà opponibile ai terzi.

Tutto ciò si riflette anche sull’attività notarile perchè il notaio incaricato della stipula di una compravendita non potrà limitarsi a effettuare le sole verifiche ipotecarie e catastali ma dovrà altresì chiedere alle parti quale sia il loro regime patrimoniale perché, come vedremo, c’è una particolare disciplina da rispettare nel caso di soggetti sposati in comunione legale dei beni.

Come funziona la separazione dei beni

Se una persona vuole acquistare un immobile ed è sposata in regime di separazione dei beni, non si pongono grandi problemi.

Se compra da solo, l’immobile sarà intestato in ogni caso solo a lui e al suo coniuge non spetterà nulla. Se invece vogliono comprarlo insieme, è necessario che entrambi stipulino e firmino l’atto di compravendita e solo in questo caso diventeranno comproprietari dell’immobile acquistato.

Se invece si è sposati in comunione dei beni, anche se a comprare sia solo uno dei due, di tale acquisto si avvantaggerà anche il coniuge non acquirente, pur non avendo stipulato e firmato l’atto di compravendita. Questo è il meccanismo di acquisto automatico previsto dall’art. 177 c.c. in forza del quale “gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio costituiscono oggetto della comunione, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali”, ipotesi di cui a breve parleremo.

Come comportarsi in caso di vendita

Come abbiamo spiegato, se Tizio è sposato in comunione dei beni e compra da solo un immobile, salvo che si tratti di bene personale, questo finisce in comunione.

A differenza della comunione ordinaria, la comunione dei beni viene definita una “comunione senza quote”, in quanto finchè perdura ciascun coniuge non può dirsi titolare di una quota di comproprietà e non ne può disporre autonomamente, ma potrà farlo solo allo scioglimento della stessa. Se fosse uguale alla comunione ordinaria, ciascun comproprietario potrebbe cedere la propria quota autonomamente. L’unico modo per poterlo fare è quindi procedere prima della vendita alla stipula di una  separazione dei beni.

Per intenderci se due coniugi in separazione comprano un immobile insieme, sono comproprietari 1/2 ciascuno; se due coniugi in comunione comprano un immobile, questo finisce semplicemente in comunione dei beni, e potranno ritenersi effettivamente titolari della quota di 1/2 solo al momento della scioglimento della stessa.

Occorre sapere poi che la legge stabilisce regole inderogabili per la gestione e l’amministrazione dei beni in comunione legale. L’ordinaria amministrazione spetta ai coniugi anche disgiuntamente, mentre tutto ciò che implichi straordinaria amministrazione, come ad esempio, la vendita, la permuta o la concessione di ipoteche, deve essere compiuto congiuntamente dai coniugi.

Un esempio di vendita

Luisa ha sposato nel 1990 Filippo e sono ancora coniugati in comunione dei beni. Nel 1995 la sola Luisa aveva acquistato un immobile da Giorgio, bene che è quindi finito in comunione dei beni. Oggi è intenzione di Luisa vendere tale immobile ma per farlo dovrà intervenire e sottoscrivere l’atto anche Filippo perchè trattasi di atto di vendita di un bene in comunione dei beni anche se, all’epoca, a sottoscrivere l’atto di acquisto era stata solo Luisa.

Il notaio incaricato della stipula quindi non potrà fare affidamento solo sulle risultanze de registri immobiliari e del catasto ma dovrà accertarsi presso le parti anche del loro regime patrimoniale per sapere a chi spetta la legittimazione a stipulare l’atto stesso. Il tutto perchè soprattutto in passato non si indicava in atto il regime patrimoniale delle parti come oggi impone la legge (in realtà l’art. 2659 c.c. impone l’indicazione del regime nella sola nota di trascrizione ma la prassi notarile consolidata lo riporta anche in atto), e quindi il notaio che voglia accertarsi della legittimazione a vendere, dovrà chiedere se chi aveva acquistato all’epoca fosse in comunione dei beni o meno perchè in caso di risposta affermativa, sarà necessario il consenso anche dell’altro coniuge.

Tutto ciò è molto importante che venga rispettato perchè la legge stabilisce che gli atti compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro possono essere annullati (art. 184 c.c.).

I beni che rimangono personali

Non tutti i beni finiscono in comunione dei beni e la legge (art. 179 c.c.) stabilisce i casi e le modalità con le quali far risultare che un bene sia personale ad uno solo dei coniugi. Ma cerchiamo di capire quali sono.

  1. tutti i beni acquistati prima del matrimonio;
  2. i beni che uno dei coniugi abbia ricevuto per successione o donazione. In questo caso, anche se ricevuti in costanza di matrimonio, la legge blocca il meccanismo della comunione legale, per la particolare provenienza del bene stesso. Tali beni finiscono in comunione solo se il de cuius nel testamento o il donante in atto abbiano specificamente attribuito tali beni alla comunione, cosa che però nel 99,99 % dei casi non avviene;
  3. i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge, si pensi al vestiario o ad un accessorio come l’orologio da polso;
  4. i beni che servono all’esercizio della professione del coniuge, si pensi allo studio del coniuge avvocato;
  5. i beni ottenuti a titolo di risarcimento danni nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa;
  6. i beni acquistati con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all’atto di acquisto. Questa è forse l’ipotesi più importante di esclusione: si pensi al caso di vendita di un immobile ricevuto per successione e al successivo acquisto di un altro immobile con il ricavato della suddetta vendita. Anche questo nuovo immobile sarà personale per un fenomeno definito di “surrogazione reale” (sostituisco un bene personale con un altro). Per far sì che si verifichi tale surrogazione è però necessario che si dichiari espressamente in atto la natura personale del bene.

La legge per evitare contestazioni e facili elusioni della disciplina della comunione legale dei beni, nel caso di acquisto di beni immobili di cui alle indicati ai punti 3), 4) ed 6) impone che l’effettiva natura personale del bene acquistato sia confermata anche dal coniuge non acquirente.

In poche parole è necessario che quest’ultimo presenzi all’atto di compravendita al solo fine di confermare espressamente la dichiarazione resa dal coniuge acquirente. La Cassazione ha però precisato che tale conferma è una mera dichiarazione di scienza e non vale ad escludere il bene dalla comunione se in realtà il bene acquistato non è personale.

Per intenderci se Carlo che fa il medico acquista un immobile da adibire a studio dichiarando che è suo bene personale perchè utile all’esercizio della sua professione e la moglie Luisa conferma tale dichiarazione in atto, ma poi tale immobile viene adibito ad abitazione coniugale, anche se Luisa ha confermato la natura personale, l’immobile finisce lo stesso in comunione dei beni.

Questo è il risultato di un consolidato orientamento della Cassazione (Cass. S.U. n. 22755/2009) secondo il quale sarebbe invalido il cosiddetto “rifiuto del co-acquisto”, ovvero non si può dichiarare di voler escludere un immobile che dovrebbe invece finire in comunione dei beni. Se si ammettesse un simile risultato si finirebbe per svilire l’intento di tutela posto alla base della comunione dei beni e, afferma la Cassazione, se i coniugi intendono raggiungere tale obiettivo, possono sempre stipulare una convenzione di separazione dei beni.

Conclusioni de iure condendo

In queste poche righe sono stati analizzati solo gli aspetti salienti del regime della comunione legale dei beni ma come è facile immaginare la sua applicazione diretta produce non solo difficoltà pratiche evidenti ma è anche oggetto sempre più spesso di contenzioso giudiziale il che probabilmente non è più controbilanciato dalle esigenze di tutela insite nella riforma del diritto di famiglia del 1975.

Tutto questo deve far riflettere il Legislatore al fine di capire se abbia ancora ragion d’essere prevedere quale regime di base la comunione legale dei beni o se forse non sia necessario pensare di tornare al regime previgente della separazione dei beni.

Questo non significa abbassare le tutele o disconoscere l’uguaglianza fra i coniugi ma semplicemente semplificare la normativa, abbattere il contenzioso e adeguarla al radicale cambiamento del tessuto sociale.

Notaio Massimo d’Ambrosio

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