L’Enfiteusi

L’enfiteusi è un diritto reale di godimento su cosa altrui consistente nel potere di utilizzare un fondo altrui, percependone i frutti, con l’obbligo di migliorarlo e di pagare un canone periodico in denaro o in natura.

1. Definizione e caratteristiche generali

Si ha enfiteusi quando il proprietario, che non vuole direttamente interessarsi di un bene immobile, ne cede ad altri il godimento, con l’obbligo di pagare un canone e di migliorare il fondo. La costituzione, che è fatta in perpetuo o per lungo tempo (è chiamata anche locazione perpetua) è quasi una virtuale alienazione.1

Questa la definizione che fornisce Alberto Trabucchi di un istituto di origine medioevale e ormai caduto in disuso, pur contemplata la sua disciplina dal legislatore del 1942 al Titolo IV del Libro Terzo del Codice Civile.

La costituzione dell’enfiteusi avveniva in passato con ampia diffusione per destinare a colture estesi terreni boschivi, paludosi o incolti, ma anche per il miglioramento dei fondi urbani e proprio per realizzare tali finalità richiedeva (e tuttora è previsto in termini di durata) un limite minimo di vent’anni (art. 958).2 E’ un diritto reale di godimento su cosa altrui che si acquista per contratto con la stipulazione in forma scritta a pena di nullità e soggetta a trascrizione nei registri immobiliari, per testamento (eredità o legato), per legge (successione legittima o necessaria a causa di morte) o per usucapione con il possesso continuato e ininterrotto uti dominus per almeno vent’anni del diritto sul fondo. L’enfiteusi può essere ceduta a terzi e trasmessa agli eredi (art. 965).

2. Diritti e obblighi dell’enfiteuta

All’enfiteuta dunque è concesso in perpetuo o per un certo tempo il potere di utilizzare un fondo con l’acquisizione degli stessi diritti che avrebbe il proprietario sui frutti del fondo stesso e delle sue accessioni, sul tesoro e relativamente alle utilizzazioni del sottosuolo (art. 959). Può disporre del suo diritto (ma non del fondo che rimane di proprietà del concedente) sia per atto tra vivi che per testamento (art. 965 e 967) e può affrancarlo in qualsiasi momento, pagando al proprietario, che non può opporsi all’esercizio di tale diritto, una somma che l’art. 1, comma 4 della L. n. 607/1966 indicava pari a 15 volte il canone annuo (art. 971).

Tra gli obblighi dell’enfiteuta è contemplato quello di migliorare il fondo, realizzando opere o iniziative dirette a incrementare il valore del terreno o aumentarne la produttività e quello di pagare al concedente un canone periodico che può consistere in una somma di denaro o in una quantità fissa di prodotti naturali; esso non può essere ridotto, nè rimesso per qualunque insolita sterilità del fondo o perdita di frutti (art. 960). Nel caso di confiteuti o eredi dell’enfiteuta l’obbligo del pagamento del canone grava su di essi solidalmente finché dura la comunione e il diritto di regresso fra di loro; l’eventuale godimento separato o la divisione del fondo determinano per ogni enfiteuta un obbligo proporzionale al valore della propria porzione (art. 961).

Sicuramente le ipotesi di frazionamento del canone e del fondo con frequente pregiudizio al concedente non potevano essere risolte dal legislatore con la sopravvivenza del vincolo solidale anche dopo la cessazione dello stato di comunione: le finalità proprie della divisione del fondo pertanto si realizzano con la conseguente estinzione della solidarietà solo dopo l’accertata e concreta attuazione del godimento separato delle varie porzioni del fondo stesso.

Abrogato l’art. 962, la disciplina relativa al calcolo e all’aggiornamento dei canoni è stabilita in due leggi speciali, la L. n. 607/1966 e la L. n. 1138/1970, per le quali successivamente la Corte Costituzionale3 ha dichiarato l’illegittimità dei criteri di calcolo prescritti, modificandone la portata e soprattutto indicando come principio generale la regola per cui i canoni devono essere periodicamente aggiornati mediante l’applicazione di coefficienti di maggiorazione idonei a mantenere adeguata, con una ragionevole approssimazione, la corrispondenza con l’effettiva realtà economica,4 la cui determinazione con una regolamentazione della materia è di pertinenza del legislatore. Possibili soluzioni pratiche tuttavia, vista l’assenza di interventi successivi, sono state indicate da una circolare del Ministro dell’Interno che ha ritenuto quale modalità del calcolo del capitale di affranco il criterio dettato per il computo dell’indennità di esproprio ordinaria che per i terreni agricoli è calcolata in base al valore agricolo medio del tipo di coltura in atto nell’area da espropriare, stabilito annualmente da rilevazioni operate da un’apposita commissione provinciale.5 Più compiutamente la circolare n. 29104/2011 dell’Agenzia del Territorio, superando la precedente nota ministeriale e aderendo al principio indicato dalla Corte Costituzionale, ha indicato come valido il criterio dell’indennità di esproprio per pubblica utilità dei fondi rustici per rapportare i canoni ed il capitale di affrancazione alla effettiva realtà economica, senza più fare ricorso al criterio del reddito dominicale rivalutato, ormai di obsoleta applicazione, nonostante la successiva normativa in tema di determinazione dei coefficienti di rivalutazione dei redditi dominicali (L. n. 228/2012 e successive modificazioni di cui L. n. 208/2015).

Il concedente dal canto suo può chiedere, come vedremo, la liberazione del fondo enfiteutico (devoluzione) in caso di suo deterioramento, di mancato adempimento dell’obbligo di miglioramento o di morosità nel pagamento dei canoni pari a due annualità (art. 972), rimborsando all’enfiteuta i miglioramenti e le addizioni effettuate alla cessazione del suo diritto (art. 975); ancora può chiedere la ricognizione del proprio diritto di proprietà un anno prima del compimento del ventennio nei confronti del possessore del fondo (art. 969).

3. Estinzione dell’enfiteusi

L’enfiteusi può estinguersi per scadenza del termine (se temporanea), per prescrizione in caso di non uso ventennale del diritto (art. 970) o per rinuncia ad esso, per consolidazione, per affrancazione quando con atto unilaterale il concessionario paghi al proprietario un valore come stabilito dalle leggi speciali, per devoluzione quando il proprietario chieda giudizialmente la cessazione dei diritti dell’enfiteuta e la liberazione del fondo per il mancato adempimento degli obblighi a suo carico previsti (artt. 972974). Se l’enfiteuta paga i canoni arretrati prima della sentenza il proprietario non può più esercitare il suo potere di devoluzione, mentre il bene può comunque essere affrancato anche in pendenza di una causa di devoluzione. Infine l’enfiteusi può estinguersi per perimento totale del fondo (art. 963), ossia quando il diritto non è più esercitabile per la perdita delle capacità produttive del fondo stesso e per il cessare della sua attitudine a procurare una qualsiasi utilità economica, non integrata l’ipotesi dalle diverse finalità attribuite ad esempio ad un fondo prima agricolo poi urbano per il quale l’utilizzo realizza comunque intenti e scopi di redditività economica. Se, a causa di un perimento parziale ma di notevole entità, il canone risulta sproporzionato al valore della parte residua, l’enfiteuta può chiedere entro un anno dall’avvenuto perimento, una congrua riduzione del canone o rinunciare al suo diritto, restituendo il fondo al concedente, salvo il diritto al rimborso dei miglioramenti effettuati sulla parte residua (art. 963).

E’ chiaro che con la restituzione del fondo l’enfiteusi che ha origine contrattuale è oggetto di risoluzione, venendo a mancare la ragione del consenso al contratto stesso: in altri termini una perdita di capacità notevole di parte del fondo durante le trattative avrebbe disincentivato l’enfiteuta dal prestare il proprio assenso, non potendo realizzare lo scopo contrattualmente prefisso. E’ comunque possibile che, preferendo ottenere una riduzione del canone, l’enfiteuta ammortizzi comunque la perdita parziale anche se la residua non stava fruttando un reddito sufficiente per pagare il canone inizialmente stabilito; in tal caso è presumibile dedurre che l’enfiteuta avrebbe comunque prestato il proprio consenso anche se la parte del fondo fosse già perita al tempo della stipula del contratto.

Il comma 4 dell’art. 963 introduce il caso in cui il fondo sia assicurato contro il rischio di perimento, in particolare se l’assicurazione sia stata stipulata anche nell’interesse del concedente con la conseguente ripartizione dell’indennità tra questi e l’enfiteuta in proporzione al valore dei rispettivi diritti.

4. Cenni sul “livello” e sua assimilazione all’enfiteusi

Il “livello” o “precario” è un istituto giuridico utilizzato in epoca imperiale e diffusissimo fino al 1800; privo di una propria configurazione normativa, la sua definizione deriva dal latino “libellus”, documento che conteneva il contratto di livello con gli obblighi imposti al livellario. In pratica era un contratto agrario con il quale il proprietario del fondo (titolare del dominio diretto) concedeva al livellario (titolare del dominio utile) il possesso e lo sfruttamento del fondo in cambio dell’obbligo di pagamento di un canone in denaro o in natura (una percentuale del raccolto) e di miglioramento del fondo per una durata perpetua o per vent’anni rinnovabili con la ricognizione al diciannovesimo anno. Nella stipulazione del livello concedenti erano spesso nobili, monasteri e chiese, avendo, come l’enfiteusi, la funzione di ripopolare territori abbandonati a seguito di vicende belliche, distinguendosi dall’istituto maggiore per la figura del concedente che poteva non essere il proprietario del fondo ma l’enfiteuta stesso e per la possibile mancata previsione dell’obbligo di miglioramento del fondo. L’uso unificato dei due istituti finì nelle codificazioni moderne per accettare anche una pressochè totale uniformità di disciplina tra codice civile e leggi speciali in materia appunto di enfiteusi.6 Con gli strumenti dell’affrancazione e della devoluzione il livellario poteva diventare proprietario del bene, pagando una somma di denaro pari a 15 volte l’ammontare del canone (art. 9, L. n. 1138/1970) e il concedente poteva ottenere la liberazione del fondo per le stesse ragioni e con le stesse modalità previste dall’art. 972.

4.1. Estinzione per legge dei livelli

Come accennato, anche l’istituto del “livello” è caduto in disuso, oggi addirittura sconosciuto e nemmeno più eseguite dal dopoguerra sono le prestazioni stabilite dai vecchi rapporti, ancora sporadicamente sopravviventi. L’esperienza degli ultimi anni ha tuttavia evidenziato un cambiamento di rotta rispetto ad una prolungata fase storica di tolleranza da parte dei concedenti privati e degli enti ecclesiastici rispetto alla mancata percezione dei canoni, a causa della macchinosità dei mezzi di riscossione di fronte ad un gettito ritenuto oramai irrisorio e inadeguato.7 Le recentissime necessità economiche per Enti pubblici e Comuni hanno in qualche modo “riesumato” vecchie e dimenticate pretese fondate su tali istituti, senza contare comunque i casi di reviviscenza di vecchie stipulazioni, apparentemente inesistenti, emergenti dalle ispezioni catastali e dalle visure relative a ipoteche ultraventennali a garanzia dei canoni, mai rinnovate. Pertanto ai correttivi operati dalla L. n. 3/1974 (limitatamente alla Regione Veneto) e dalla L. n. 16/1974, propriamente finalizzati ad eliminare per ragioni di antieconomicità diritti perpetui in capo solo alle Amministrazioni e Aziende autonome dello Stato, ha fatto seguito la L. n. 133/2008 (abrogativa della citata L. n. 16/1974) e tuttora in vigore l’art. 60 della L. n. 222/1985. Da una sintesi di tali interventi la reale e attuale sussistenza dei livelli porta a diverse situazioni, anche geograficamente distinte, soprattutto in base alla natura del soggetto concedente, a seconda che si tratti di un’amministrazione statale, di un comune, di un ente ecclesiastico o comunque di altro soggetto, esclusi però gli enti locali a proposito dei quali, mai legislativamente menzionati, è possibile dedurre la facoltà di rinuncia alla riscossione dei canoni.

4.2. Affrancazione giudiziale ed extragiudiziale dei livelli

Ma che succede quando non opera, pur in presenza dei requisiti frammentariamente previsti, l’estinzione per legge ed emergano dalle visure ipocatastali vecchissimi e ineseguiti oneri livellari a favore di concedenti diversi dall’amministrazione statale, fatta eccezione, come si diceva, per i livelli veneti? E come si risolvono le problematiche sulla sicurezza dell’acquisto di un terreno ancora gravato, quando in particolare l’alienante sia lo stesso livellario che dello stesso bene si ritiene proprietario? La risposta sta nell’applicazione dell’affrancazione (come prevista dall’art. 971 per l’enfiteusi), sia di natura giudiziale che transattiva, vista per dottrina prevalente la natura di obbligazione propter rem del vincolo al livellario, opponibile all’acquirente. Come già accennato, all’enfiteuta/livellario è consentito riscattare il fondo, pagando al concedente, in base al tipo di fondo (agricolo, edificabile o edificabile), una somma pari alla capitalizzazione del canone annuo, ferma restando anche l’ipotesi in cui si preferisca mantenere il vincolo e riprendere il pagamento del canone. Per quanto riguarda l’affrancazione extragiudiziale è corretto affermare la natura reale del contratto con cui si definisce, che si perfeziona al momento del pagamento del prezzo.

L’atto deve, a pena di nullità, risultare per iscritto e pubblico con la trascrizione, mentre, qualora si pratichi la via giudiziale, deve essere trascritta la domanda iniziale e annotata a margine la sentenza. E’ bene precisare che non si determina estinzione del dominio utile del concedente, solo oggetto di passaggio all’affrancante che lo acquista a titolo derivativo e l’art. 2815, comma 1, dispone che con l’affrancazione le ipoteche gravanti sul diritto del concedente si risolvono sul corrispettivo di affranco, mentre quelle gravanti sul diritto dell’enfiteuta/livellario si estendono alla piena proprietà.

4.3. Livelli/ enfiteusi e usucapione

Il protrarsi dell’omesso pagamento del canone non muta il titolo del possesso8, il diritto del concedente non si estingue per usucapione (art. 1164) poiché è possibile usucapire solo il diritto dell’enfiteuta ma non il dominio diretto del proprietario, per sua natura imprescrittibile; nemmeno vale in tal senso l’esercizio del potere di ricognizione ex art. 969 che non riguarda le enfiteusi perpetue ed è un diritto riconosciuto al concedente in materia di enfiteusi a tempo per impedire all’ex enfiteuta di usucapire il terreno. Così altra conseguenza per dottrina e giurisprudenza è l’imprescrittibilità del diritto del concedente (in quanto facoltà perpetua) a ottenere il pagamento del livello anche nei confronti di eredi o aventi causa del livellario che abbiano continuato a possedere il fondo senza pagare il canone per oltre vent’anni; è chiara a tale proposito la distinzione tra l’obbligo di pagare i canoni nel suo complesso dalla diversa obbligazione delle singole annualità scadute, soggetta a termine quinquennale di prescrizione.

A prescindere dall’affrancazione, l’enfiteuta/livellario acquista la piena proprietà per usucapione solo per interversione del possesso con cui muta la detenzione in possesso o l’esercizio del diritto reale su cosa altrui in possesso come facoltà derivante dall’esercizio del diritto di proprietà, ad esempio con la trasformazione irreversibile del fondo che non sia semplice miglioria9 e comunque in tutti quei casi in cui è chiara l’intenzione di esercitare da parte del livellario un potere nomine proprio.

4.4. 4.4. Livelli/enfiteusi in presenza di usi civici, esproprio ed esecuzione forzata

Per uso civico s’intende il diritto di godimento collettivo su beni immobili che spetta ai membri di una collettività su terreni di proprietà di terzi o comunali in base ad una prassi consolidata e collettiva. In quanto anch’essi pesi gravanti sui fondi, la cui sussistenza rende il fondo di proprietà privata inalienabile a pena di nullità dell’atto (con conseguente responsabilità del notaio rogante ex art. 28 L.N.), un’ipotesi particolare ha riguardato la concessione di livelli a favore di amministrazioni comunali pur in presenza di usi civici gravanti su quel determinato terreno.

Conclusive considerazioni meritano infine i casi di esproprio ed esecuzione forzata riguardanti fondi sui quali gravano enfiteusi o livelli. Tra i soggetti legittimati ad impugnare gli atti di una procedura ablatoria vi è l’enfiteuta/livellario,10 titolare di una posizione differenziata e qualificata11in relazione all’area su cui esercita il proprio diritto, quindi dell’interesse a impugnare il provvedimento espropriativo. In tema di esecuzione immobiliare avente ad oggetto il fondo gravato da livello il problema di stabilire la relativa natura dell’onere, emergente dall’atto di provenienza o dai certificati ipotecari, è affidato al professionista delegato alla vendita dal Giudice dell’esecuzione, potendosi verificare in particolare due situazioni possibili: il pignoramento del diritto di enfiteusi in concomitanza ad elementi processuali indicanti la maturata usucapione della piena proprietà e il pignoramento della piena proprietà, certificata dalla relazione notarile come originariamente diritto di enfiteusi dell’esecutato o dei suoi danti causa. In ordine alla prima ipotesi non potrà procedersi a modificazione del diritto oggetto di pignoramento da enfiteusi a piena proprietà. Se invece è pignorata la piena proprietà, ma emerge l’originaria natura di enfiteusi del diritto ed elementi indicanti la maturata usucapione, il professionista delegato non potrà prescindere da una segnalazione al Giudice dell’Esecuzione al quale il creditore procedente potrà richiedere un provvedimento di limitazione dell’espropriazione per quanto riguarda l’identificazione del diritto da sottoporre a vendita forzata. Infine, venduta la piena proprietà in presenza di livello, il decreto di trasferimento dovrà evidenziare tra le formalità pregiudizievoli l’impossibilità di cancellare tale onere, contrariamente alla vendita del solo diritto di enfiteusi per la quale non è necessario inserire la segnalazione di un eventuale possesso ventennale uti dominus, mancando un accertamento giudiziale in tal senso.

(Fonte Altalex)

Architettura e caratteristiche del rione “Terra” di Ostuni

Il rione “Terra”, ovvero il centro storico di Ostuni, nella sua massima espansione si viene a trovare quasi su di uno strapiombo, oggi in parte livellato da terrazzamenti agricoli e dalla costruzione di vie di comunicazione. Per questo motivo alcuni torrio­ni risultano oggi come sprofondati.

Il paese è situato su di una collina e poggia su di un terreno affiorante di tipo roccioso carsico: un tempo questa porzione di territorio ai piedi della cinta era abitata, difatti molte delle rocce af­fioranti sono state lavorate per definire spazi per il lavoro o il sedime di case. È ancora visibile una porzione di muro a sacco che si innesta da una tor­re, forse di un’abitazione.

Alcune abitazioni presentano un piano semi-in­terrato o interrato, talvolta coincidente con la struttura di frantoi ipogei, ovvero di grandi stanze ipostile per la lavorazione delle olive. Questi locali sottoposti sono in corrispondenza ad un salto di quota per cui posseggono finestre solo da un lato.

Alcune costruzioni trovano la loro collocazione al di sopra delle cinte murarie preesistenti, come ad esempio l’ex convento di clausura delle Bene­dettine – costruito nel 1530 – che ha la sua sede sul sedime delle mura angioine, ancora visibili nei sot­terranei dello stesso.

Le abitazioni tipiche.

La differenza maggiore si nota fra le costruzioni di tipo “povero” e quelle più nobili e signorili.

Nella prima categoria includiamo tutte le abitazio­ni del popolo, costituite solitamente da tre vani e accesso diretto su strada. Si dice infatti “sala, ar­cuéve e cammarìne” la tipica casa costituita da una sala (salotto e cucina), alcova sotto cui stava il letto matrimoniale e la cameretta per i bambini. In que­sta prima disposizione non trovava luogo il bagno, che inizia a comparire invece solo nel XX secolo o all’interno delle case, se disponevano di spazi più grandi, oppure all’esterno o come piccoli aggetti o come chiusura di terrazzi prima esistenti.

Solitamente costruite ad un unico livello, oggi spesso unite mediante l’inserimento di scale inter­ne non sempre congrue, talvolta tagliando le volte esistenti. La casa terranea era detta “sottana” ov­vero al piano di sotto (piano terra), mentre quella al primo piano era detta “soprana”. Per questo si assiste ad un’edilizia che varia tra 2 e al massimo 3 livelli. Se la casa al piano superiore era realizza­ta in concomitanza con quella al piano inferiore, la scala era realizzata internamente preferibilmente chiusa da una voltina a botte con la stessa penden­za della scala. In questo modo la scala era affianca­ta alle stanze, senza tagliarne le volte.

Dato il gran­de dislivello da superare (una stanza voltata può raggiungere anche i 3,50 o 4,00 m) e volendo occu­pare solo un lato della casa, l’alzata dei gradini ri­sulta particolarmente elevata, e difatti per ridurla si usa spesso già portarsi ad una quota maggiore su strada.

Nel caso in cui la sopraelevazione risulta successi­va, si assiste alla creazione di scale esterne, talvol­ta con piccoli ballatoi per distribuire al più due o tre appartamenti. In questo caso, circa la questio­ne statica, si devono indagare le connessioni fra la casa a piano terra e quella a primo piano e se la prima è capace di sopportare questa aggiunta di carico.

Alla fine del XVI secolo, durante la costruzione dei rioni extra moenia, si usava già preparare la sca­la che conduceva al terrazzo accanto della casa a piano terra, in modo tale che se si fosse voluto sopraelevare l’abitazione, non si sarebbe dovuto tagliare alcun solaio, né occupare la strada pubbli­ca. Passeggiando oggi per questi rioni si assiste in alcuni punti alla cristallizzazione di questo modo di procedere alla costruzione.

 Un’altra tipologia tipica era la casa con bottega, dove quest’ultima trovava l’ingresso in un porto­ne più grande e che termina con una chiusura ad archetto. La casa del padrone ha un ingresso indi­pendente a lato del portone della bottega e si svi­luppa al piano superiore.

Le scale erano larghe 3 palmi equivalenti a circa 78 cm, e il materiale da costruzione dei gradini, nelle scritture notarili, era specificato l’uso del carparo, le cui cave erano poco distanti dal centro.

Nel centro storico non mancano costruzioni più signorili, nate nei vari secoli accorpando più abita­zioni o ricostruendo porzioni di isolati. Queste abi­tazioni solitamente sono composte da due livelli e sono riconoscibili dall’esterno grazie ai portali fi­nemente decorati e all’arme, ovvero agli scudi de­corativi con lo stemma ed il motto delle famiglie.

Altra tipologia di case sono quelle a corte, talvolta appartenente ad una sola famiglia ma molto spes­so su cui si affacciano anche più case. Questo modo di costruire è proprio dell’epoca normanna e assi­curava alle famiglie di poter avere un piccolo spa­zio all’aperto in cui coltivare qualcosa.

Nella Terra vi erano inoltre alcuni spazi cintati te­nuti a giardino od orto, che avrebbero assicurato in caso di assedio una possibilità di rifornimento di viveri di prima necessità. Vi erano inoltre cister­ne, spesso di semplice raccolta delle acque mete­oriche convogliate dai tetti, che invece servivano per rifornirsi di acqua.

Materiali da costruzione e murature.

Nella terra di Ostuni le cave principali sono di pie­tra calcarea o calcarenitica, la quale è usata sia come materiale da costruzione che per ricavare l’intonaco per i rivestimenti. La pie­tra ostunese, in particolare, è un calcare compatto color bianco avorio ed è ottimo perché pur essendo compatto è allo stesso tempo duttile nella lavorazione e resi­stente agli agenti atmosferici in virtù d’una patina brunastra che, formandosi col passar degli anni, lo rende immune dall’erosione.

Tale materiale, insie­me alla così detta pietra gentile, venivano lavorate con gli scalpelli per definire modanature e decora­zioni, come l’arme (stemmi nobiliari) e le cornici di porte e finestre. Con la calce si realizza sia la malta per l’alletta­mento delle pietre, che il latte di calce per le finitu­re ad intonaco. Questo veniva passato ogni anno su tutte le costruzioni per cui risulta ancora leggibile in molti punti della città la stratificazione.

Tutte le architetture di maggior pregio (Chiese e palazzotti nobiliari) sono costruite con la pietra di Ostuni lasciata a vista, mentre le case del po­polo erano costruite principalmente con tufo o pietre meno pregiate poi imbiancate a calce. Oltre al pregio legato alla materia, vi è un pregio legato alla lavorazione della stessa. I conci sono sempre squadrati ma con molta più precisione e attenzio­ne nell’edilizia aulica, che quindi vede corsi più alti e meno malta di allettamento. Al contrario nelle abitazioni povere i conci sono solo sbozzati con strumenti meno precisi e quindi necessitano di maggiore malta per l’allettamento.

Una regolarità nella definizione dell’apparecchia­tura muraria ovvero l’uso di conci di dimensione sempre uguale e la presenza di poca malta di allet­tamento insieme a una distribuzione sfalsata dei giunti verticali, garantisce una migliore risposta ad eventuali sollecitazioni orizzontali.

Lo spessore delle pareti è elevato e si aggira attor­no ai 40 cm minimo, permettendo così la creazio­ne di nicchie di varie dimensioni. La muratura era solitamente costruita a sacco, ovvero creando due paramenti con conci di pietra più regolari e riem­piti con pietre di dimensione inferiore e irregolari. Anche i palazzi signorili presentano l’uso di mu­ratura a sacco ma più stabile grazie ai diatoni di collegamento dei due paramenti.

Solai e coperture.

Inizialmente i solai di interpiano furono definiti con l’uso delle travi di legno con rivestimento in cannicciato e paglia, sostituiti poi con volte in pie­tra soprattutto a seguito degli eventi sismici. In pochissimi punti della città vi sono ancora oggi tracce dei legni usati nella costruzione.

All’interno del Museo delle Arti Preclassiche, ovve­ro dell’ex Monastero delle Monache Carmelitane, si vede un pezzo del torchio per la produzione del mosto, tagliato e posato per creare l’architrave di una porta. In altri punti della città si legge l’uso del legno sempre come architrave, sia di porte che di nicchie. Oggi invece tutte le stanze sono chiuse da volte in pietra di diversa tipologia. Nel Salento sono usate delle forme differenti dal resto d’Italia ed in parti­colare troviamo le volte a botte con unghie, le vol­te a squadro e le volte a stella con quattro od otto punte. Le volte botte semplici sono utilizzate per camere di dimensione minore o per le alcove.

Le volte a stella, dette anche a spigolo, nascono nel XVII secolo e trovano la loro diffusione maggio­re nel Salento poiché sono caratterizzate dall’uso della pietra calcarea. Sono un tipo di volta mol­to complesso e composto da varie fasi costrut­tive. Prima di tutto si costruiscono quattro pilastri quadrangolari su cui si imposta­no i pennacchi detti appigli o appese in dialetto. I pennacchi, assimilabili a una specie di pulvino dalla forma tronco-piramidale, aiutano a definire l’orientamento degli archi e a ridurne l’ampiezza, poiché aumentano la dimensione dell’apice del piedritto su cui poggia la volta. Le forze verranno scaricate su questi pilastri, per cui la muratura la­terale risulterà un tamponamento non necessario ai fini strutturali.

Vengono installate poi le forma­te, ovvero gli archi che determinano la lunghezza e l’altezza della volta, e che collegano i vari pilastri a definire il perimetro della stanza. A partire dal­le formate, si innestano due calotte simili a volte a botte, dette unghie, ed un’ulteriore calotta che contiene la chiave di volta. Il risultato è una volta molto simile ad una crociera ma con un disegno stilizzato di una stella.

Esiste anche una forma così detta a stella doppia o a otto punte, poiché in ogni pennacchio giungono 2 punte. Il pilastro che sostiene la volta è a forma di L. Il processo costruttivo è il medesimo, tranne che si viene a creare uno spazio fra le due punte per ogni angolo che verrà chiuso da un elemento tipo cuneo detto cappuccio.

La volta a stella a 4 punte copre spazi più piccoli con lato di dimensione compresa fra 4,00 e 5,50 metri, mentre se con 8 punte si possono coprire spazi di lato minimo 6,00 metri. 

Circa le coperture, la maggior parte è prettamente di tipo piano, caratterizzata dal così detto lastrico solare in battuto di terra, con chianche di colore grigio scuro che seguono l’andamento degli estra­dossi delle volte. Pochissime abitazioni e le Chiese terminano invece con un tetto a falda doppia e co­pertura in coppi.

La costruzione di volte in pietra, a botte o a crociera è stata utilizzata anche per ricavare stanze costru­ite a cavallo di strade. Lungo le vie di assiste infatti ad una serie di archi, solitamente di tipo rampante isolati o a tutto sesto con sopra l’abitazione. Que­sto garantisce che gli sforzi sono divisi equamente a destra e a sinistra su entrambe le murature. Le gallerie che così si definiscono hanno lunghezza differente ospitando una o due stanze al massimo, solitamente con ad un piano solo tranne per alcuni casi in cui si assiste a due stanze sovrapposte.

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