L’Enfiteusi

L’enfiteusi è un diritto reale di godimento su cosa altrui consistente nel potere di utilizzare un fondo altrui, percependone i frutti, con l’obbligo di migliorarlo e di pagare un canone periodico in denaro o in natura.

1. Definizione e caratteristiche generali

Si ha enfiteusi quando il proprietario, che non vuole direttamente interessarsi di un bene immobile, ne cede ad altri il godimento, con l’obbligo di pagare un canone e di migliorare il fondo. La costituzione, che è fatta in perpetuo o per lungo tempo (è chiamata anche locazione perpetua) è quasi una virtuale alienazione.1

Questa la definizione che fornisce Alberto Trabucchi di un istituto di origine medioevale e ormai caduto in disuso, pur contemplata la sua disciplina dal legislatore del 1942 al Titolo IV del Libro Terzo del Codice Civile.

La costituzione dell’enfiteusi avveniva in passato con ampia diffusione per destinare a colture estesi terreni boschivi, paludosi o incolti, ma anche per il miglioramento dei fondi urbani e proprio per realizzare tali finalità richiedeva (e tuttora è previsto in termini di durata) un limite minimo di vent’anni (art. 958).2 E’ un diritto reale di godimento su cosa altrui che si acquista per contratto con la stipulazione in forma scritta a pena di nullità e soggetta a trascrizione nei registri immobiliari, per testamento (eredità o legato), per legge (successione legittima o necessaria a causa di morte) o per usucapione con il possesso continuato e ininterrotto uti dominus per almeno vent’anni del diritto sul fondo. L’enfiteusi può essere ceduta a terzi e trasmessa agli eredi (art. 965).

2. Diritti e obblighi dell’enfiteuta

All’enfiteuta dunque è concesso in perpetuo o per un certo tempo il potere di utilizzare un fondo con l’acquisizione degli stessi diritti che avrebbe il proprietario sui frutti del fondo stesso e delle sue accessioni, sul tesoro e relativamente alle utilizzazioni del sottosuolo (art. 959). Può disporre del suo diritto (ma non del fondo che rimane di proprietà del concedente) sia per atto tra vivi che per testamento (art. 965 e 967) e può affrancarlo in qualsiasi momento, pagando al proprietario, che non può opporsi all’esercizio di tale diritto, una somma che l’art. 1, comma 4 della L. n. 607/1966 indicava pari a 15 volte il canone annuo (art. 971).

Tra gli obblighi dell’enfiteuta è contemplato quello di migliorare il fondo, realizzando opere o iniziative dirette a incrementare il valore del terreno o aumentarne la produttività e quello di pagare al concedente un canone periodico che può consistere in una somma di denaro o in una quantità fissa di prodotti naturali; esso non può essere ridotto, nè rimesso per qualunque insolita sterilità del fondo o perdita di frutti (art. 960). Nel caso di confiteuti o eredi dell’enfiteuta l’obbligo del pagamento del canone grava su di essi solidalmente finché dura la comunione e il diritto di regresso fra di loro; l’eventuale godimento separato o la divisione del fondo determinano per ogni enfiteuta un obbligo proporzionale al valore della propria porzione (art. 961).

Sicuramente le ipotesi di frazionamento del canone e del fondo con frequente pregiudizio al concedente non potevano essere risolte dal legislatore con la sopravvivenza del vincolo solidale anche dopo la cessazione dello stato di comunione: le finalità proprie della divisione del fondo pertanto si realizzano con la conseguente estinzione della solidarietà solo dopo l’accertata e concreta attuazione del godimento separato delle varie porzioni del fondo stesso.

Abrogato l’art. 962, la disciplina relativa al calcolo e all’aggiornamento dei canoni è stabilita in due leggi speciali, la L. n. 607/1966 e la L. n. 1138/1970, per le quali successivamente la Corte Costituzionale3 ha dichiarato l’illegittimità dei criteri di calcolo prescritti, modificandone la portata e soprattutto indicando come principio generale la regola per cui i canoni devono essere periodicamente aggiornati mediante l’applicazione di coefficienti di maggiorazione idonei a mantenere adeguata, con una ragionevole approssimazione, la corrispondenza con l’effettiva realtà economica,4 la cui determinazione con una regolamentazione della materia è di pertinenza del legislatore. Possibili soluzioni pratiche tuttavia, vista l’assenza di interventi successivi, sono state indicate da una circolare del Ministro dell’Interno che ha ritenuto quale modalità del calcolo del capitale di affranco il criterio dettato per il computo dell’indennità di esproprio ordinaria che per i terreni agricoli è calcolata in base al valore agricolo medio del tipo di coltura in atto nell’area da espropriare, stabilito annualmente da rilevazioni operate da un’apposita commissione provinciale.5 Più compiutamente la circolare n. 29104/2011 dell’Agenzia del Territorio, superando la precedente nota ministeriale e aderendo al principio indicato dalla Corte Costituzionale, ha indicato come valido il criterio dell’indennità di esproprio per pubblica utilità dei fondi rustici per rapportare i canoni ed il capitale di affrancazione alla effettiva realtà economica, senza più fare ricorso al criterio del reddito dominicale rivalutato, ormai di obsoleta applicazione, nonostante la successiva normativa in tema di determinazione dei coefficienti di rivalutazione dei redditi dominicali (L. n. 228/2012 e successive modificazioni di cui L. n. 208/2015).

Il concedente dal canto suo può chiedere, come vedremo, la liberazione del fondo enfiteutico (devoluzione) in caso di suo deterioramento, di mancato adempimento dell’obbligo di miglioramento o di morosità nel pagamento dei canoni pari a due annualità (art. 972), rimborsando all’enfiteuta i miglioramenti e le addizioni effettuate alla cessazione del suo diritto (art. 975); ancora può chiedere la ricognizione del proprio diritto di proprietà un anno prima del compimento del ventennio nei confronti del possessore del fondo (art. 969).

3. Estinzione dell’enfiteusi

L’enfiteusi può estinguersi per scadenza del termine (se temporanea), per prescrizione in caso di non uso ventennale del diritto (art. 970) o per rinuncia ad esso, per consolidazione, per affrancazione quando con atto unilaterale il concessionario paghi al proprietario un valore come stabilito dalle leggi speciali, per devoluzione quando il proprietario chieda giudizialmente la cessazione dei diritti dell’enfiteuta e la liberazione del fondo per il mancato adempimento degli obblighi a suo carico previsti (artt. 972974). Se l’enfiteuta paga i canoni arretrati prima della sentenza il proprietario non può più esercitare il suo potere di devoluzione, mentre il bene può comunque essere affrancato anche in pendenza di una causa di devoluzione. Infine l’enfiteusi può estinguersi per perimento totale del fondo (art. 963), ossia quando il diritto non è più esercitabile per la perdita delle capacità produttive del fondo stesso e per il cessare della sua attitudine a procurare una qualsiasi utilità economica, non integrata l’ipotesi dalle diverse finalità attribuite ad esempio ad un fondo prima agricolo poi urbano per il quale l’utilizzo realizza comunque intenti e scopi di redditività economica. Se, a causa di un perimento parziale ma di notevole entità, il canone risulta sproporzionato al valore della parte residua, l’enfiteuta può chiedere entro un anno dall’avvenuto perimento, una congrua riduzione del canone o rinunciare al suo diritto, restituendo il fondo al concedente, salvo il diritto al rimborso dei miglioramenti effettuati sulla parte residua (art. 963).

E’ chiaro che con la restituzione del fondo l’enfiteusi che ha origine contrattuale è oggetto di risoluzione, venendo a mancare la ragione del consenso al contratto stesso: in altri termini una perdita di capacità notevole di parte del fondo durante le trattative avrebbe disincentivato l’enfiteuta dal prestare il proprio assenso, non potendo realizzare lo scopo contrattualmente prefisso. E’ comunque possibile che, preferendo ottenere una riduzione del canone, l’enfiteuta ammortizzi comunque la perdita parziale anche se la residua non stava fruttando un reddito sufficiente per pagare il canone inizialmente stabilito; in tal caso è presumibile dedurre che l’enfiteuta avrebbe comunque prestato il proprio consenso anche se la parte del fondo fosse già perita al tempo della stipula del contratto.

Il comma 4 dell’art. 963 introduce il caso in cui il fondo sia assicurato contro il rischio di perimento, in particolare se l’assicurazione sia stata stipulata anche nell’interesse del concedente con la conseguente ripartizione dell’indennità tra questi e l’enfiteuta in proporzione al valore dei rispettivi diritti.

4. Cenni sul “livello” e sua assimilazione all’enfiteusi

Il “livello” o “precario” è un istituto giuridico utilizzato in epoca imperiale e diffusissimo fino al 1800; privo di una propria configurazione normativa, la sua definizione deriva dal latino “libellus”, documento che conteneva il contratto di livello con gli obblighi imposti al livellario. In pratica era un contratto agrario con il quale il proprietario del fondo (titolare del dominio diretto) concedeva al livellario (titolare del dominio utile) il possesso e lo sfruttamento del fondo in cambio dell’obbligo di pagamento di un canone in denaro o in natura (una percentuale del raccolto) e di miglioramento del fondo per una durata perpetua o per vent’anni rinnovabili con la ricognizione al diciannovesimo anno. Nella stipulazione del livello concedenti erano spesso nobili, monasteri e chiese, avendo, come l’enfiteusi, la funzione di ripopolare territori abbandonati a seguito di vicende belliche, distinguendosi dall’istituto maggiore per la figura del concedente che poteva non essere il proprietario del fondo ma l’enfiteuta stesso e per la possibile mancata previsione dell’obbligo di miglioramento del fondo. L’uso unificato dei due istituti finì nelle codificazioni moderne per accettare anche una pressochè totale uniformità di disciplina tra codice civile e leggi speciali in materia appunto di enfiteusi.6 Con gli strumenti dell’affrancazione e della devoluzione il livellario poteva diventare proprietario del bene, pagando una somma di denaro pari a 15 volte l’ammontare del canone (art. 9, L. n. 1138/1970) e il concedente poteva ottenere la liberazione del fondo per le stesse ragioni e con le stesse modalità previste dall’art. 972.

4.1. Estinzione per legge dei livelli

Come accennato, anche l’istituto del “livello” è caduto in disuso, oggi addirittura sconosciuto e nemmeno più eseguite dal dopoguerra sono le prestazioni stabilite dai vecchi rapporti, ancora sporadicamente sopravviventi. L’esperienza degli ultimi anni ha tuttavia evidenziato un cambiamento di rotta rispetto ad una prolungata fase storica di tolleranza da parte dei concedenti privati e degli enti ecclesiastici rispetto alla mancata percezione dei canoni, a causa della macchinosità dei mezzi di riscossione di fronte ad un gettito ritenuto oramai irrisorio e inadeguato.7 Le recentissime necessità economiche per Enti pubblici e Comuni hanno in qualche modo “riesumato” vecchie e dimenticate pretese fondate su tali istituti, senza contare comunque i casi di reviviscenza di vecchie stipulazioni, apparentemente inesistenti, emergenti dalle ispezioni catastali e dalle visure relative a ipoteche ultraventennali a garanzia dei canoni, mai rinnovate. Pertanto ai correttivi operati dalla L. n. 3/1974 (limitatamente alla Regione Veneto) e dalla L. n. 16/1974, propriamente finalizzati ad eliminare per ragioni di antieconomicità diritti perpetui in capo solo alle Amministrazioni e Aziende autonome dello Stato, ha fatto seguito la L. n. 133/2008 (abrogativa della citata L. n. 16/1974) e tuttora in vigore l’art. 60 della L. n. 222/1985. Da una sintesi di tali interventi la reale e attuale sussistenza dei livelli porta a diverse situazioni, anche geograficamente distinte, soprattutto in base alla natura del soggetto concedente, a seconda che si tratti di un’amministrazione statale, di un comune, di un ente ecclesiastico o comunque di altro soggetto, esclusi però gli enti locali a proposito dei quali, mai legislativamente menzionati, è possibile dedurre la facoltà di rinuncia alla riscossione dei canoni.

4.2. Affrancazione giudiziale ed extragiudiziale dei livelli

Ma che succede quando non opera, pur in presenza dei requisiti frammentariamente previsti, l’estinzione per legge ed emergano dalle visure ipocatastali vecchissimi e ineseguiti oneri livellari a favore di concedenti diversi dall’amministrazione statale, fatta eccezione, come si diceva, per i livelli veneti? E come si risolvono le problematiche sulla sicurezza dell’acquisto di un terreno ancora gravato, quando in particolare l’alienante sia lo stesso livellario che dello stesso bene si ritiene proprietario? La risposta sta nell’applicazione dell’affrancazione (come prevista dall’art. 971 per l’enfiteusi), sia di natura giudiziale che transattiva, vista per dottrina prevalente la natura di obbligazione propter rem del vincolo al livellario, opponibile all’acquirente. Come già accennato, all’enfiteuta/livellario è consentito riscattare il fondo, pagando al concedente, in base al tipo di fondo (agricolo, edificabile o edificabile), una somma pari alla capitalizzazione del canone annuo, ferma restando anche l’ipotesi in cui si preferisca mantenere il vincolo e riprendere il pagamento del canone. Per quanto riguarda l’affrancazione extragiudiziale è corretto affermare la natura reale del contratto con cui si definisce, che si perfeziona al momento del pagamento del prezzo.

L’atto deve, a pena di nullità, risultare per iscritto e pubblico con la trascrizione, mentre, qualora si pratichi la via giudiziale, deve essere trascritta la domanda iniziale e annotata a margine la sentenza. E’ bene precisare che non si determina estinzione del dominio utile del concedente, solo oggetto di passaggio all’affrancante che lo acquista a titolo derivativo e l’art. 2815, comma 1, dispone che con l’affrancazione le ipoteche gravanti sul diritto del concedente si risolvono sul corrispettivo di affranco, mentre quelle gravanti sul diritto dell’enfiteuta/livellario si estendono alla piena proprietà.

4.3. Livelli/ enfiteusi e usucapione

Il protrarsi dell’omesso pagamento del canone non muta il titolo del possesso8, il diritto del concedente non si estingue per usucapione (art. 1164) poiché è possibile usucapire solo il diritto dell’enfiteuta ma non il dominio diretto del proprietario, per sua natura imprescrittibile; nemmeno vale in tal senso l’esercizio del potere di ricognizione ex art. 969 che non riguarda le enfiteusi perpetue ed è un diritto riconosciuto al concedente in materia di enfiteusi a tempo per impedire all’ex enfiteuta di usucapire il terreno. Così altra conseguenza per dottrina e giurisprudenza è l’imprescrittibilità del diritto del concedente (in quanto facoltà perpetua) a ottenere il pagamento del livello anche nei confronti di eredi o aventi causa del livellario che abbiano continuato a possedere il fondo senza pagare il canone per oltre vent’anni; è chiara a tale proposito la distinzione tra l’obbligo di pagare i canoni nel suo complesso dalla diversa obbligazione delle singole annualità scadute, soggetta a termine quinquennale di prescrizione.

A prescindere dall’affrancazione, l’enfiteuta/livellario acquista la piena proprietà per usucapione solo per interversione del possesso con cui muta la detenzione in possesso o l’esercizio del diritto reale su cosa altrui in possesso come facoltà derivante dall’esercizio del diritto di proprietà, ad esempio con la trasformazione irreversibile del fondo che non sia semplice miglioria9 e comunque in tutti quei casi in cui è chiara l’intenzione di esercitare da parte del livellario un potere nomine proprio.

4.4. 4.4. Livelli/enfiteusi in presenza di usi civici, esproprio ed esecuzione forzata

Per uso civico s’intende il diritto di godimento collettivo su beni immobili che spetta ai membri di una collettività su terreni di proprietà di terzi o comunali in base ad una prassi consolidata e collettiva. In quanto anch’essi pesi gravanti sui fondi, la cui sussistenza rende il fondo di proprietà privata inalienabile a pena di nullità dell’atto (con conseguente responsabilità del notaio rogante ex art. 28 L.N.), un’ipotesi particolare ha riguardato la concessione di livelli a favore di amministrazioni comunali pur in presenza di usi civici gravanti su quel determinato terreno.

Conclusive considerazioni meritano infine i casi di esproprio ed esecuzione forzata riguardanti fondi sui quali gravano enfiteusi o livelli. Tra i soggetti legittimati ad impugnare gli atti di una procedura ablatoria vi è l’enfiteuta/livellario,10 titolare di una posizione differenziata e qualificata11in relazione all’area su cui esercita il proprio diritto, quindi dell’interesse a impugnare il provvedimento espropriativo. In tema di esecuzione immobiliare avente ad oggetto il fondo gravato da livello il problema di stabilire la relativa natura dell’onere, emergente dall’atto di provenienza o dai certificati ipotecari, è affidato al professionista delegato alla vendita dal Giudice dell’esecuzione, potendosi verificare in particolare due situazioni possibili: il pignoramento del diritto di enfiteusi in concomitanza ad elementi processuali indicanti la maturata usucapione della piena proprietà e il pignoramento della piena proprietà, certificata dalla relazione notarile come originariamente diritto di enfiteusi dell’esecutato o dei suoi danti causa. In ordine alla prima ipotesi non potrà procedersi a modificazione del diritto oggetto di pignoramento da enfiteusi a piena proprietà. Se invece è pignorata la piena proprietà, ma emerge l’originaria natura di enfiteusi del diritto ed elementi indicanti la maturata usucapione, il professionista delegato non potrà prescindere da una segnalazione al Giudice dell’Esecuzione al quale il creditore procedente potrà richiedere un provvedimento di limitazione dell’espropriazione per quanto riguarda l’identificazione del diritto da sottoporre a vendita forzata. Infine, venduta la piena proprietà in presenza di livello, il decreto di trasferimento dovrà evidenziare tra le formalità pregiudizievoli l’impossibilità di cancellare tale onere, contrariamente alla vendita del solo diritto di enfiteusi per la quale non è necessario inserire la segnalazione di un eventuale possesso ventennale uti dominus, mancando un accertamento giudiziale in tal senso.

(Fonte Altalex)

Tutto sulla comunione legale e sulla separazione dei beni

In Italia quando due persone si sposano tra di loro si instaura automaticamente il regime patrimoniale della comunione legale dei beni. Tale regime è entrato in vigore il 20 settembre 1975 con la l. 19 maggio 1975 n. 151 (cd. Riforma del diritto di Famiglia).

In precedenza, infatti, il regime legale era quello della separazione dei beni e per instaurare la comunione occorreva un apposito negozio di comunione convenzionale. Prima del 1975 di norma ciascun coniuge restava titolare esclusivo dei beni acquistati in costanza di matrimonio.

Questa situazione però si rifletteva negativamente sulle dinamiche sociali, dove molto spesso nella famiglia italiana il marito era l’unico a lavorare e a produrre reddito mentre la moglie si dedicava alla casa e all’educazione dei figli. Per il Legislatore questo poneva in una situazione di svantaggio e di dipendenza economica il coniuge non lavoratore. D’altronde era anche grazie al tempo dedicato dalla moglie alla casa e ai figli che il marito poteva concentrarsi pienamente sulla propria attività lavorativa.

Nell’intento di dare esecuzione ai principi costituzionali di uguaglianza giuridica e morale tra i coniugi nonché con la volontà di riconoscere piena tutela ad ogni forma di lavoro, specialmente quello domestico, si decise di invertire totalmente la regola, stabilendo quale regime legale la comunione dei beni. In questo modo, di ogni acquisto compiuto dai coniugi, anche singolarmente, si avvantaggia anche l’altro e un simile meccanismo finiva per riconoscere una tutela anche al coniuge più debole economicamente, di norma rappresentato dalla moglie dedita al lavoro di casa.

E’ sotto gli occhi di tutti però che dal 1975 ad oggi le cose sono del tutto cambiate, non esiste più la famiglia patriarcale e molto spesso entrambi i coniugi lavorano e producono un proprio reddito, e per tutto questo sembrano ormai quantomeno anacronistiche le ragioni che imposero quale regime legale la comunione dei beni e non sono poche le voci degli addetti ai lavori che spingono per un ritorno alla separazione dei beni quale regime patrimoniale di base.

Lasciando da parte tali considerazioni, cerchiamo di capire come funziona la comunione legale dei beni e quali conseguenze ha nella stipula degli atti di compravendita.

Come funziona la comunione dei beni

Come detto, la legge prevede che, al momento del matrimonio, tra i coniugi si instauri automaticamente la comunione dei beni. Per evitare tale effetto automatico ci sono due strade:

  1. la prima è dichiarare, già nell’atto di matrimonio, la scelta per il regime di separazione;
  2. la seconda è quella di stipulare successivamente un atto notarile con la quale i coniugi dichiarano la propria volontà di passare alla separazione dei beni.

Non basta stipulare una convenzione matrimoniale ma è necessario che venga altresì annotata a margine dell’atto di matrimonio. Una volta stipulata la convenzione, il notaio la comunica all’ufficiale dello stato civile presso il Comune ove è stato celebrato il matrimonio e questi provvede ad eseguire tale pubblicità. Solo dopo tale adempimento il cambio di regime patrimoniale sarà opponibile ai terzi.

Tutto ciò si riflette anche sull’attività notarile perchè il notaio incaricato della stipula di una compravendita non potrà limitarsi a effettuare le sole verifiche ipotecarie e catastali ma dovrà altresì chiedere alle parti quale sia il loro regime patrimoniale perché, come vedremo, c’è una particolare disciplina da rispettare nel caso di soggetti sposati in comunione legale dei beni.

Come funziona la separazione dei beni

Se una persona vuole acquistare un immobile ed è sposata in regime di separazione dei beni, non si pongono grandi problemi.

Se compra da solo, l’immobile sarà intestato in ogni caso solo a lui e al suo coniuge non spetterà nulla. Se invece vogliono comprarlo insieme, è necessario che entrambi stipulino e firmino l’atto di compravendita e solo in questo caso diventeranno comproprietari dell’immobile acquistato.

Se invece si è sposati in comunione dei beni, anche se a comprare sia solo uno dei due, di tale acquisto si avvantaggerà anche il coniuge non acquirente, pur non avendo stipulato e firmato l’atto di compravendita. Questo è il meccanismo di acquisto automatico previsto dall’art. 177 c.c. in forza del quale “gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio costituiscono oggetto della comunione, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali”, ipotesi di cui a breve parleremo.

Come comportarsi in caso di vendita

Come abbiamo spiegato, se Tizio è sposato in comunione dei beni e compra da solo un immobile, salvo che si tratti di bene personale, questo finisce in comunione.

A differenza della comunione ordinaria, la comunione dei beni viene definita una “comunione senza quote”, in quanto finchè perdura ciascun coniuge non può dirsi titolare di una quota di comproprietà e non ne può disporre autonomamente, ma potrà farlo solo allo scioglimento della stessa. Se fosse uguale alla comunione ordinaria, ciascun comproprietario potrebbe cedere la propria quota autonomamente. L’unico modo per poterlo fare è quindi procedere prima della vendita alla stipula di una  separazione dei beni.

Per intenderci se due coniugi in separazione comprano un immobile insieme, sono comproprietari 1/2 ciascuno; se due coniugi in comunione comprano un immobile, questo finisce semplicemente in comunione dei beni, e potranno ritenersi effettivamente titolari della quota di 1/2 solo al momento della scioglimento della stessa.

Occorre sapere poi che la legge stabilisce regole inderogabili per la gestione e l’amministrazione dei beni in comunione legale. L’ordinaria amministrazione spetta ai coniugi anche disgiuntamente, mentre tutto ciò che implichi straordinaria amministrazione, come ad esempio, la vendita, la permuta o la concessione di ipoteche, deve essere compiuto congiuntamente dai coniugi.

Un esempio di vendita

Luisa ha sposato nel 1990 Filippo e sono ancora coniugati in comunione dei beni. Nel 1995 la sola Luisa aveva acquistato un immobile da Giorgio, bene che è quindi finito in comunione dei beni. Oggi è intenzione di Luisa vendere tale immobile ma per farlo dovrà intervenire e sottoscrivere l’atto anche Filippo perchè trattasi di atto di vendita di un bene in comunione dei beni anche se, all’epoca, a sottoscrivere l’atto di acquisto era stata solo Luisa.

Il notaio incaricato della stipula quindi non potrà fare affidamento solo sulle risultanze de registri immobiliari e del catasto ma dovrà accertarsi presso le parti anche del loro regime patrimoniale per sapere a chi spetta la legittimazione a stipulare l’atto stesso. Il tutto perchè soprattutto in passato non si indicava in atto il regime patrimoniale delle parti come oggi impone la legge (in realtà l’art. 2659 c.c. impone l’indicazione del regime nella sola nota di trascrizione ma la prassi notarile consolidata lo riporta anche in atto), e quindi il notaio che voglia accertarsi della legittimazione a vendere, dovrà chiedere se chi aveva acquistato all’epoca fosse in comunione dei beni o meno perchè in caso di risposta affermativa, sarà necessario il consenso anche dell’altro coniuge.

Tutto ciò è molto importante che venga rispettato perchè la legge stabilisce che gli atti compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro possono essere annullati (art. 184 c.c.).

I beni che rimangono personali

Non tutti i beni finiscono in comunione dei beni e la legge (art. 179 c.c.) stabilisce i casi e le modalità con le quali far risultare che un bene sia personale ad uno solo dei coniugi. Ma cerchiamo di capire quali sono.

  1. tutti i beni acquistati prima del matrimonio;
  2. i beni che uno dei coniugi abbia ricevuto per successione o donazione. In questo caso, anche se ricevuti in costanza di matrimonio, la legge blocca il meccanismo della comunione legale, per la particolare provenienza del bene stesso. Tali beni finiscono in comunione solo se il de cuius nel testamento o il donante in atto abbiano specificamente attribuito tali beni alla comunione, cosa che però nel 99,99 % dei casi non avviene;
  3. i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge, si pensi al vestiario o ad un accessorio come l’orologio da polso;
  4. i beni che servono all’esercizio della professione del coniuge, si pensi allo studio del coniuge avvocato;
  5. i beni ottenuti a titolo di risarcimento danni nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa;
  6. i beni acquistati con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all’atto di acquisto. Questa è forse l’ipotesi più importante di esclusione: si pensi al caso di vendita di un immobile ricevuto per successione e al successivo acquisto di un altro immobile con il ricavato della suddetta vendita. Anche questo nuovo immobile sarà personale per un fenomeno definito di “surrogazione reale” (sostituisco un bene personale con un altro). Per far sì che si verifichi tale surrogazione è però necessario che si dichiari espressamente in atto la natura personale del bene.

La legge per evitare contestazioni e facili elusioni della disciplina della comunione legale dei beni, nel caso di acquisto di beni immobili di cui alle indicati ai punti 3), 4) ed 6) impone che l’effettiva natura personale del bene acquistato sia confermata anche dal coniuge non acquirente.

In poche parole è necessario che quest’ultimo presenzi all’atto di compravendita al solo fine di confermare espressamente la dichiarazione resa dal coniuge acquirente. La Cassazione ha però precisato che tale conferma è una mera dichiarazione di scienza e non vale ad escludere il bene dalla comunione se in realtà il bene acquistato non è personale.

Per intenderci se Carlo che fa il medico acquista un immobile da adibire a studio dichiarando che è suo bene personale perchè utile all’esercizio della sua professione e la moglie Luisa conferma tale dichiarazione in atto, ma poi tale immobile viene adibito ad abitazione coniugale, anche se Luisa ha confermato la natura personale, l’immobile finisce lo stesso in comunione dei beni.

Questo è il risultato di un consolidato orientamento della Cassazione (Cass. S.U. n. 22755/2009) secondo il quale sarebbe invalido il cosiddetto “rifiuto del co-acquisto”, ovvero non si può dichiarare di voler escludere un immobile che dovrebbe invece finire in comunione dei beni. Se si ammettesse un simile risultato si finirebbe per svilire l’intento di tutela posto alla base della comunione dei beni e, afferma la Cassazione, se i coniugi intendono raggiungere tale obiettivo, possono sempre stipulare una convenzione di separazione dei beni.

Conclusioni de iure condendo

In queste poche righe sono stati analizzati solo gli aspetti salienti del regime della comunione legale dei beni ma come è facile immaginare la sua applicazione diretta produce non solo difficoltà pratiche evidenti ma è anche oggetto sempre più spesso di contenzioso giudiziale il che probabilmente non è più controbilanciato dalle esigenze di tutela insite nella riforma del diritto di famiglia del 1975.

Tutto questo deve far riflettere il Legislatore al fine di capire se abbia ancora ragion d’essere prevedere quale regime di base la comunione legale dei beni o se forse non sia necessario pensare di tornare al regime previgente della separazione dei beni.

Questo non significa abbassare le tutele o disconoscere l’uguaglianza fra i coniugi ma semplicemente semplificare la normativa, abbattere il contenzioso e adeguarla al radicale cambiamento del tessuto sociale.

Notaio Massimo d’Ambrosio

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