Quanto costa un pozzo artesiano?

Fare un pozzo artesiano può essere la soluzione ideale per garantire l’approvvigionamento idrico di case isolate o dove la rete idrica presenta carenze e malfunzionamenti. Se quindi soffri perchè non hai acqua sufficiente per i tuoi bisogni domestici o produttivi, potrebbe interessarti sapere quanto costa fare un pozzo artesiano ed ecco per te la nostra piccola guida.

Cosa è un pozzo artesiano e perchè conviene farlo

Il pozzo artesiano è un pozzo in cui l’acqua sgorga naturalmente, senza l’aiuto di mezzi meccanici come le pompe sommerse. Tali pozzi attingono l’acqua da una falda denominata artesiana. Questa falda consiste in uno strato d’acqua profondo nel quale il flusso idrico avviene grazie alla pressione esercitata dai due strati impermeabili che delimitano la falda stessa.

L’acqua tende a risalire da sola, arrivando fino alla cosiddetta linea piezometrica, cioè quel punto in cui la pressione dell’acqua è nulla. I pozzi artesiani, quindi, vanno a perforare la parte superiore della falda per provocare la risalita dell’acqua verso l’alto, fino al livello statico della falda stessa.

In quel punto l’acqua inizierà a sgorgare nel suolo. La risalita dell’acqua è condizionata dalla pressione nella falda: più è alta, maggiore sarà la capacità dell’acqua di risalire in superficie.

Il pozzo artesiano è in genere profondo e di piccolo diametro e si realizza grazie a trivelle montate su camion o cingolati. La profondità di un pozzo artesiano può arrivare fino a 100 metri in virtù della profondità stessa della falda acquifera artesiana.

L’acqua che sgorga in superficie è spesso potabile. Una caratteristica fondamentale del pozzo artesiano risiede nella possibilità di scelta dei punti della falda da sigillare e quelli da mantenere liberi.

In questo modo, stabilendo un equilibrio tra falde da chiudere e falde da mantenere aperte, il pozzo artesiano risolve varie esigenze. Se il pozzo viene creato semplicemente per irrigare i campi, si avrà la necessità di andare a captare tutte le falde per aumentare la portata del pozzo.

Se si ha bisogno di un pozzo d’acqua per uso domestico, si andranno a selezionare le falde acquifere che presentano una maggiore qualità e un minor rischio di inquinamento.

Prima di illustrare i costi di un pozzo domestico, occorre comprendere la differenza che intercorre tra un pozzo artesiano e un pozzo freatico. Quest’ultimo è un pozzo che attinge da una falda freatica che contiene al suo interno acqua non in pressione.

È un falda poco profonda in cui il flusso avviene a pelo libero e difficilmente raggiunge la superficie. In questo caso si rende necessario l’utilizzo di pompe sommerse in grado di sollevare l’acqua fino al terreno. Il pozzo freatico è di grandi dimensioni e non supera i 20 metri di profondità.

Proprio per questa caratteristica, di solito l’acqua di un pozzo freatico serve semplicemente per irrigare i campi o per tutti quegli scopi che non necessitano di acqua potabile, come gli scarichi dei wc.

Il pozzo freatico è di solito il pozzo che si trova nei giardini, nei chiostri dei conventi o nelle tenute di compagna rivestito da pietre o mattoni.

Senza tener conto dei costi per la realizzazione dei pozzi artesiani, si deve tener presente che i pozzi artesiani assicurano una portata maggiore di acqua rispetto ai pozzi freatici e garantiscono una resa costante e continuativa.

È la soluzione ideale per chi necessita di notevoli quantità di acqua sia per uso civile, agricolo o industriale. L’acqua dei pozzi artesiani, grazie alla buona portata, è utilizzata anche negli acquedotti e per servire impianti antincendio.

Un altro vantaggio fondamentale relativo al pozzo artesiano risiede nella minori necessità di manutenzione. Questo è un elemento essenziale di fronte alla decisione del pozzo da realizzare, oltre alle valutazioni relative a prezzi e costi di realizzazione.

Realizzare un pozzo artesiano: quali lavori fare e a quale costo?

Una volta presa la decisione di realizzare un pozzo, ci si interroga su quanto costa fare un pozzo artesiano e quali possano essere i prezzi di realizzazione al metro. Prima di soffermarci sui costi e le autorizzazioni, occorre però considerare un fattore fondamentale.

In origine, la costruzione di un pozzo era realizzata con metodi artigianali e questa pratica era molto pericolosa per l’operatore addetto allo scavo all’interno della buca. In questo modo, l’operatore era costantemente esposto al rischio di crolli del terreno che ne potevano ostacolare la risalita o addirittura impedirgli di tornare in superficie. Alla luce di tutto questo, si sconsiglia la realizzazione di un pozzo artesiano fai da te.

Affidarsi ad una ditta seria e competente è un elemento fondamentale. Bisogna stabilire per prima cosa il fine ultimo del pozzo ovvero se l’acqua verrà utilizzata per l’irrigazione oppure per scopi civili. Il personale specializzato verificherà la profondità della falda acquifera attraverso le trivelle usate per i pozzi artesiani.

Una volta individuata la falda acquifera, verranno effettuate delle analisi per verificarne la qualità: un fattore essenziale se si necessita di acqua potabile. La falda acquifera verrà quindi isolata attraverso dei tubi in PVC delle stesse dimensioni della buca (profonda, ma stretta) creata dalla trivella.

A questo punto, le fasi salienti della creazione di un pozzo artesiano si sono concluse. Non resta altro che circondare il buco con un anello in PVC che servirà da base per i mattoni che andranno posizionati intorno (nel caso si voglia creare quell’aspetto gradevole tipico dei pozzi).

Quanto mi costa fare un pozzo artesiano?

È la prima domanda che ci si fa quando si decide di realizzarlo. Prima di stabilire le fasce di prezzo relative al costo al metro di un pozzo artesiano o chiavi in mano, occorre tener presente un elemento molto importante.

Sarà necessario richiedere un preventivo per il pozzo artesiano a varie aziende per poter poi confrontare le varie proposte e decidere in tutta autonomia. I costi per la realizzazione di un pozzo artesiano variano in base alla stratigrafia del suolo, ovvero alla sua composizione, ai materiali e alla profondità dello scavo da effettuare.

Proprio per la presenza di queste variabili, i costi dei pozzi artesiani variano da un’azienda all’altra. Le incognite sono molte per riuscire a stabilire quanto costa trivellare un pozzo artesiano.

In generale, si può affermare che per la creazione di un pozzo poco profondo “chiavi in mano” sono necessari dai 2.000,00 € ai 3.000,00 €, tralasciando tutte le variabili possibili relative alla natura del terreno e ai vari permessi e autorizzazioni necessarie.

Per quanto riguarda i costi per metro lineare, nel caso si vogliano realizzare pozzi artesiani di particolare profondità, occorre fare delle distinzioni. Un pozzo artesiano che debba essere realizzato su di un terreno situato in una zona alluvionale con falde relativamente prossime alla superficie, potrà avere un costo di trivellazione approssimativamente di 15,00 € al metro (in totale si ipotizza una spesa vicina ai 1.000,00 €). Una zona rocciosa e difficile da penetrare vedrà lievitare molto il costo di trivellazione al metro del pozzo artesiano (la cifra di solito si avvicina ai 90,00 € al metro).

Fare un pozzo artesiano: autorizzazioni e permessi

La normativa per realizzare un pozzo artesiano è molto complessa e si rifà al Regio Decreto 1775/1933. Tale decreto stabilisce che il proprietario del terreno può estrarre e utilizzare liberamente le acque dal suolo purché siano rispettate le distanze dai confini, dai tubi preesistenti e che venga realizzato a regola d’arte.

Questa è la norma base che regolamenta la materia. Nel corso degli anni a questa legge si sono aggiunti tutta una serie di permessi e autorizzazioni da chiedere sia alle Province che ai Comuni. Per essere sicuri di realizzare il pozzo artesiano secondo le normative vigenti, occorre verificare le disposizioni della Regione d’appartenenza.

Prima di procedere alla costruzione del pozzo, occorre verificare presso l’Ufficio Tecnico Comunale se la propria zona è soggetta a vincoli idrogeologici e munirsi quindi delle necessarie autorizzazioni.

In generale, per chiedere i permessi relativi alla costruzione del pozzo domestico occorre inviare all’Ufficio Gestione delle Acque Sotterranee della propria Regione una serie di documenti. Il primo è relativo alla comunicazione di voler realizzare un pozzo ad uso domestico, tramite apposito modulo prestampato.

È necessario allegare la planimetria del terreno con evidenziato il punto in cui si intenderà procedere allo scavo. Per ottenere tutti i permessi relativi alla costruzione del pozzo artesiano si dovrà allegare copia di un documento d’identità insieme all’atto di proprietà del terreno, oltre che fornire una data presunta di inizio lavori.

Se la Regione non risponde entro 60 giorni, vale la regola del silenzio assenso. L’azienda che esegue il lavoro dovrà poi rilasciare un documento di avvenuta perforazione, avendo cura di dichiarare la natura del pozzo e del terreno.

permessi relativi al pozzo artesiano sono da richiedere anche per quanto riguarda l’utilizzo dell’acqua. Ogni anno va inoltrata la dichiarazione sul volume d’acqua prelevato durante l’anno precedente all’organo competente che ha rilasciato l’autorizzazione. Tale prelievo rimane comunque gratuito. Il volume può essere stimato oppure, in presenza di un contatore, corrisponde a quanto effettivamente consumato.

Caparra confirmatoria, caparra penitenziale e clausola penale. Quali le differenze?

Nel Diritto Civile Italiano, la Caparra è una somma di denaro o una quantità d’altre cose fungibili, versata a titolo di reciproca e mutua garanzia dell’esatto adempimento del contratto ovvero come corrispettivo per il caso di recesso dal contratto.

La sua funzione è quindi quella di prevedere una sorta di risarcimento immediato nel caso di inadempienza contrattuale e in caso di adempimento (quindi mantenimento esatto dei patti concordati) deve essere restituita o imputata alla prestazione dovuta.

Al momento della redazione della Proposta di Acquisto e successivamente, alla sottoscrizione del Preliminare di Compravendita (Compromesso), le parti pattuiscono che una versi all’altra una somma di denaro a titolo di Caparra, con funzioni ed effetti diversi a seconda che si tratti di Caparra Confirmatoria o Caparra Penitenziale, di differente natura rispetto alla Clausola Penale.

Vediamo quali sono le differenze, partendo dalle norme previste dal codice civile, che regola i due tipi di Caparra previste agli artt. 1385 (Confirmatoria) e 1386 (Penitenziale).

CAPARRA CONFIRMATORIA

La Caparra Confirmatoria ha lo scopo di garantire l’adempimento delle prestazioni contrattuali, costituendo allo stesso tempo un anticipo sul risarcimento in caso di inadempimento.

Più precisamente, nel caso in cui le parti eseguano correttamente le loro prestazioni, le stesse hanno la facoltà di stabilire se restituirla a chi l’ha versata o imputarla a titolo di acconto prezzo; nel caso di inadempimento, invece, la funzione risarcitoria della Caparra è regolata dall’art. 1385 c.c. in relazione al soggetto inadempiente.

Se, infatti, se chi non adempie alla propria prestazione è chi ha versato la Caparra, l’altra parte ha diritto a trattenerla, esercitando il diritto di recesso dal contratto, qualora si ritenga così risarcito del danno subito.

Se al contrario, ad essere inadempiente è colui che ha ricevuto la Caparra, la controparte ha diritto di recedere dal contratto ed esigere un importo pari al doppio di quella versato, al fine di reintegrare il danno subito.

In entrambi i casi la parte adempiente può, in alternativa, decidere di far valere la risoluzione del contratto e di chiedere il risarcimento del danno, indipendentemente dall’importo della Caparra che potrà essere imputata in conto risarcimento o eventualmente da questo scomputata, in base all’esito del giudizio che il danneggiato dovrà intentare per l’accertamento e la quantificazione del danno.

CAPARRA PENITENZIALE

Al momento della stipula del contratto è possibile anche prevedere il versamento di una Caparra Penitenziale, in caso di recesso dal contratto di una delle parti; la differenza con la Caparra Confirmatoria, pertanto, è nella causa, cioè nel fatto che la Confirmatoria è prevista in caso di inadempimento contrattuale mentre la Penitenziale in caso di esercizio – ove legittimato – del diritto di recesso.

La Caparra Penitenziale, dunque, è il corrispettivo del recesso, cioè il Prezzo che una parte deve sopportare per esercitare un diritto che, in ogni caso, pregiudica le aspettative dell’altra nella stabilità del contratto.

Secondo il dettato dell’art. 1386, se nel contratto viene stipulato il diritto di recesso per una o per entrambe le parti, la Caparra ha la sola funzione di corrispettivo del recesso; in questo caso, il recedente perde la Caparra data, o deve restituire il doppio di quella che ha ricevuta. 

SE NON E’ SPECIFICATO IL TIPO DI CAPARRA

Qualora nel contratto preliminare sottoscritto non fosse specificato il tipo di Caparra scelto dalle parti, questa si intenderà versata a titolo di Caparra Confirmatoria ex art. 1385 c.c.

CLAUSOLA PENALE

Per completezza di informazione, entriamo anche brevemente nel merito della Clausola Penale o semplicemente “Penale”, comunemente inserita nei più svariati contratti, con la quale si conviene che, in caso di mancato o ritardato adempimento, la parte responsabile debba versare all’altra una determinata somma, il cui importo è stabilito in contrattola differenza con la Caparra Confirmatoria, pure prevista per l’ipotesi d’inadempimento, sta dunque nel fatto che la Caparra è versata in anticipo rispetto all’esecuzione del contratto, mentre il versamento della penale è eventuale e dovuto solo nel caso di inadempimento. Lo scopo della penale è quello di limitare il risarcimento alla somma pattuita nella clausola, salvo diversa volontà delle parti e, allo stesso tempo, di agevolare l’eventuale giudizio per il pagamento della penale che non dovesse essere versata spontaneamente dal soggetto inadempiente; il codice civile prevede infatti, all’art. 1382, che la penale è dovuta indipendentemente dalla prova del danno subito dalla parte adempiente.

L’Enfiteusi

L’enfiteusi è un diritto reale di godimento su cosa altrui consistente nel potere di utilizzare un fondo altrui, percependone i frutti, con l’obbligo di migliorarlo e di pagare un canone periodico in denaro o in natura.

1. Definizione e caratteristiche generali

Si ha enfiteusi quando il proprietario, che non vuole direttamente interessarsi di un bene immobile, ne cede ad altri il godimento, con l’obbligo di pagare un canone e di migliorare il fondo. La costituzione, che è fatta in perpetuo o per lungo tempo (è chiamata anche locazione perpetua) è quasi una virtuale alienazione.1

Questa la definizione che fornisce Alberto Trabucchi di un istituto di origine medioevale e ormai caduto in disuso, pur contemplata la sua disciplina dal legislatore del 1942 al Titolo IV del Libro Terzo del Codice Civile.

La costituzione dell’enfiteusi avveniva in passato con ampia diffusione per destinare a colture estesi terreni boschivi, paludosi o incolti, ma anche per il miglioramento dei fondi urbani e proprio per realizzare tali finalità richiedeva (e tuttora è previsto in termini di durata) un limite minimo di vent’anni (art. 958).2 E’ un diritto reale di godimento su cosa altrui che si acquista per contratto con la stipulazione in forma scritta a pena di nullità e soggetta a trascrizione nei registri immobiliari, per testamento (eredità o legato), per legge (successione legittima o necessaria a causa di morte) o per usucapione con il possesso continuato e ininterrotto uti dominus per almeno vent’anni del diritto sul fondo. L’enfiteusi può essere ceduta a terzi e trasmessa agli eredi (art. 965).

2. Diritti e obblighi dell’enfiteuta

All’enfiteuta dunque è concesso in perpetuo o per un certo tempo il potere di utilizzare un fondo con l’acquisizione degli stessi diritti che avrebbe il proprietario sui frutti del fondo stesso e delle sue accessioni, sul tesoro e relativamente alle utilizzazioni del sottosuolo (art. 959). Può disporre del suo diritto (ma non del fondo che rimane di proprietà del concedente) sia per atto tra vivi che per testamento (art. 965 e 967) e può affrancarlo in qualsiasi momento, pagando al proprietario, che non può opporsi all’esercizio di tale diritto, una somma che l’art. 1, comma 4 della L. n. 607/1966 indicava pari a 15 volte il canone annuo (art. 971).

Tra gli obblighi dell’enfiteuta è contemplato quello di migliorare il fondo, realizzando opere o iniziative dirette a incrementare il valore del terreno o aumentarne la produttività e quello di pagare al concedente un canone periodico che può consistere in una somma di denaro o in una quantità fissa di prodotti naturali; esso non può essere ridotto, nè rimesso per qualunque insolita sterilità del fondo o perdita di frutti (art. 960). Nel caso di confiteuti o eredi dell’enfiteuta l’obbligo del pagamento del canone grava su di essi solidalmente finché dura la comunione e il diritto di regresso fra di loro; l’eventuale godimento separato o la divisione del fondo determinano per ogni enfiteuta un obbligo proporzionale al valore della propria porzione (art. 961).

Sicuramente le ipotesi di frazionamento del canone e del fondo con frequente pregiudizio al concedente non potevano essere risolte dal legislatore con la sopravvivenza del vincolo solidale anche dopo la cessazione dello stato di comunione: le finalità proprie della divisione del fondo pertanto si realizzano con la conseguente estinzione della solidarietà solo dopo l’accertata e concreta attuazione del godimento separato delle varie porzioni del fondo stesso.

Abrogato l’art. 962, la disciplina relativa al calcolo e all’aggiornamento dei canoni è stabilita in due leggi speciali, la L. n. 607/1966 e la L. n. 1138/1970, per le quali successivamente la Corte Costituzionale3 ha dichiarato l’illegittimità dei criteri di calcolo prescritti, modificandone la portata e soprattutto indicando come principio generale la regola per cui i canoni devono essere periodicamente aggiornati mediante l’applicazione di coefficienti di maggiorazione idonei a mantenere adeguata, con una ragionevole approssimazione, la corrispondenza con l’effettiva realtà economica,4 la cui determinazione con una regolamentazione della materia è di pertinenza del legislatore. Possibili soluzioni pratiche tuttavia, vista l’assenza di interventi successivi, sono state indicate da una circolare del Ministro dell’Interno che ha ritenuto quale modalità del calcolo del capitale di affranco il criterio dettato per il computo dell’indennità di esproprio ordinaria che per i terreni agricoli è calcolata in base al valore agricolo medio del tipo di coltura in atto nell’area da espropriare, stabilito annualmente da rilevazioni operate da un’apposita commissione provinciale.5 Più compiutamente la circolare n. 29104/2011 dell’Agenzia del Territorio, superando la precedente nota ministeriale e aderendo al principio indicato dalla Corte Costituzionale, ha indicato come valido il criterio dell’indennità di esproprio per pubblica utilità dei fondi rustici per rapportare i canoni ed il capitale di affrancazione alla effettiva realtà economica, senza più fare ricorso al criterio del reddito dominicale rivalutato, ormai di obsoleta applicazione, nonostante la successiva normativa in tema di determinazione dei coefficienti di rivalutazione dei redditi dominicali (L. n. 228/2012 e successive modificazioni di cui L. n. 208/2015).

Il concedente dal canto suo può chiedere, come vedremo, la liberazione del fondo enfiteutico (devoluzione) in caso di suo deterioramento, di mancato adempimento dell’obbligo di miglioramento o di morosità nel pagamento dei canoni pari a due annualità (art. 972), rimborsando all’enfiteuta i miglioramenti e le addizioni effettuate alla cessazione del suo diritto (art. 975); ancora può chiedere la ricognizione del proprio diritto di proprietà un anno prima del compimento del ventennio nei confronti del possessore del fondo (art. 969).

3. Estinzione dell’enfiteusi

L’enfiteusi può estinguersi per scadenza del termine (se temporanea), per prescrizione in caso di non uso ventennale del diritto (art. 970) o per rinuncia ad esso, per consolidazione, per affrancazione quando con atto unilaterale il concessionario paghi al proprietario un valore come stabilito dalle leggi speciali, per devoluzione quando il proprietario chieda giudizialmente la cessazione dei diritti dell’enfiteuta e la liberazione del fondo per il mancato adempimento degli obblighi a suo carico previsti (artt. 972974). Se l’enfiteuta paga i canoni arretrati prima della sentenza il proprietario non può più esercitare il suo potere di devoluzione, mentre il bene può comunque essere affrancato anche in pendenza di una causa di devoluzione. Infine l’enfiteusi può estinguersi per perimento totale del fondo (art. 963), ossia quando il diritto non è più esercitabile per la perdita delle capacità produttive del fondo stesso e per il cessare della sua attitudine a procurare una qualsiasi utilità economica, non integrata l’ipotesi dalle diverse finalità attribuite ad esempio ad un fondo prima agricolo poi urbano per il quale l’utilizzo realizza comunque intenti e scopi di redditività economica. Se, a causa di un perimento parziale ma di notevole entità, il canone risulta sproporzionato al valore della parte residua, l’enfiteuta può chiedere entro un anno dall’avvenuto perimento, una congrua riduzione del canone o rinunciare al suo diritto, restituendo il fondo al concedente, salvo il diritto al rimborso dei miglioramenti effettuati sulla parte residua (art. 963).

E’ chiaro che con la restituzione del fondo l’enfiteusi che ha origine contrattuale è oggetto di risoluzione, venendo a mancare la ragione del consenso al contratto stesso: in altri termini una perdita di capacità notevole di parte del fondo durante le trattative avrebbe disincentivato l’enfiteuta dal prestare il proprio assenso, non potendo realizzare lo scopo contrattualmente prefisso. E’ comunque possibile che, preferendo ottenere una riduzione del canone, l’enfiteuta ammortizzi comunque la perdita parziale anche se la residua non stava fruttando un reddito sufficiente per pagare il canone inizialmente stabilito; in tal caso è presumibile dedurre che l’enfiteuta avrebbe comunque prestato il proprio consenso anche se la parte del fondo fosse già perita al tempo della stipula del contratto.

Il comma 4 dell’art. 963 introduce il caso in cui il fondo sia assicurato contro il rischio di perimento, in particolare se l’assicurazione sia stata stipulata anche nell’interesse del concedente con la conseguente ripartizione dell’indennità tra questi e l’enfiteuta in proporzione al valore dei rispettivi diritti.

4. Cenni sul “livello” e sua assimilazione all’enfiteusi

Il “livello” o “precario” è un istituto giuridico utilizzato in epoca imperiale e diffusissimo fino al 1800; privo di una propria configurazione normativa, la sua definizione deriva dal latino “libellus”, documento che conteneva il contratto di livello con gli obblighi imposti al livellario. In pratica era un contratto agrario con il quale il proprietario del fondo (titolare del dominio diretto) concedeva al livellario (titolare del dominio utile) il possesso e lo sfruttamento del fondo in cambio dell’obbligo di pagamento di un canone in denaro o in natura (una percentuale del raccolto) e di miglioramento del fondo per una durata perpetua o per vent’anni rinnovabili con la ricognizione al diciannovesimo anno. Nella stipulazione del livello concedenti erano spesso nobili, monasteri e chiese, avendo, come l’enfiteusi, la funzione di ripopolare territori abbandonati a seguito di vicende belliche, distinguendosi dall’istituto maggiore per la figura del concedente che poteva non essere il proprietario del fondo ma l’enfiteuta stesso e per la possibile mancata previsione dell’obbligo di miglioramento del fondo. L’uso unificato dei due istituti finì nelle codificazioni moderne per accettare anche una pressochè totale uniformità di disciplina tra codice civile e leggi speciali in materia appunto di enfiteusi.6 Con gli strumenti dell’affrancazione e della devoluzione il livellario poteva diventare proprietario del bene, pagando una somma di denaro pari a 15 volte l’ammontare del canone (art. 9, L. n. 1138/1970) e il concedente poteva ottenere la liberazione del fondo per le stesse ragioni e con le stesse modalità previste dall’art. 972.

4.1. Estinzione per legge dei livelli

Come accennato, anche l’istituto del “livello” è caduto in disuso, oggi addirittura sconosciuto e nemmeno più eseguite dal dopoguerra sono le prestazioni stabilite dai vecchi rapporti, ancora sporadicamente sopravviventi. L’esperienza degli ultimi anni ha tuttavia evidenziato un cambiamento di rotta rispetto ad una prolungata fase storica di tolleranza da parte dei concedenti privati e degli enti ecclesiastici rispetto alla mancata percezione dei canoni, a causa della macchinosità dei mezzi di riscossione di fronte ad un gettito ritenuto oramai irrisorio e inadeguato.7 Le recentissime necessità economiche per Enti pubblici e Comuni hanno in qualche modo “riesumato” vecchie e dimenticate pretese fondate su tali istituti, senza contare comunque i casi di reviviscenza di vecchie stipulazioni, apparentemente inesistenti, emergenti dalle ispezioni catastali e dalle visure relative a ipoteche ultraventennali a garanzia dei canoni, mai rinnovate. Pertanto ai correttivi operati dalla L. n. 3/1974 (limitatamente alla Regione Veneto) e dalla L. n. 16/1974, propriamente finalizzati ad eliminare per ragioni di antieconomicità diritti perpetui in capo solo alle Amministrazioni e Aziende autonome dello Stato, ha fatto seguito la L. n. 133/2008 (abrogativa della citata L. n. 16/1974) e tuttora in vigore l’art. 60 della L. n. 222/1985. Da una sintesi di tali interventi la reale e attuale sussistenza dei livelli porta a diverse situazioni, anche geograficamente distinte, soprattutto in base alla natura del soggetto concedente, a seconda che si tratti di un’amministrazione statale, di un comune, di un ente ecclesiastico o comunque di altro soggetto, esclusi però gli enti locali a proposito dei quali, mai legislativamente menzionati, è possibile dedurre la facoltà di rinuncia alla riscossione dei canoni.

4.2. Affrancazione giudiziale ed extragiudiziale dei livelli

Ma che succede quando non opera, pur in presenza dei requisiti frammentariamente previsti, l’estinzione per legge ed emergano dalle visure ipocatastali vecchissimi e ineseguiti oneri livellari a favore di concedenti diversi dall’amministrazione statale, fatta eccezione, come si diceva, per i livelli veneti? E come si risolvono le problematiche sulla sicurezza dell’acquisto di un terreno ancora gravato, quando in particolare l’alienante sia lo stesso livellario che dello stesso bene si ritiene proprietario? La risposta sta nell’applicazione dell’affrancazione (come prevista dall’art. 971 per l’enfiteusi), sia di natura giudiziale che transattiva, vista per dottrina prevalente la natura di obbligazione propter rem del vincolo al livellario, opponibile all’acquirente. Come già accennato, all’enfiteuta/livellario è consentito riscattare il fondo, pagando al concedente, in base al tipo di fondo (agricolo, edificabile o edificabile), una somma pari alla capitalizzazione del canone annuo, ferma restando anche l’ipotesi in cui si preferisca mantenere il vincolo e riprendere il pagamento del canone. Per quanto riguarda l’affrancazione extragiudiziale è corretto affermare la natura reale del contratto con cui si definisce, che si perfeziona al momento del pagamento del prezzo.

L’atto deve, a pena di nullità, risultare per iscritto e pubblico con la trascrizione, mentre, qualora si pratichi la via giudiziale, deve essere trascritta la domanda iniziale e annotata a margine la sentenza. E’ bene precisare che non si determina estinzione del dominio utile del concedente, solo oggetto di passaggio all’affrancante che lo acquista a titolo derivativo e l’art. 2815, comma 1, dispone che con l’affrancazione le ipoteche gravanti sul diritto del concedente si risolvono sul corrispettivo di affranco, mentre quelle gravanti sul diritto dell’enfiteuta/livellario si estendono alla piena proprietà.

4.3. Livelli/ enfiteusi e usucapione

Il protrarsi dell’omesso pagamento del canone non muta il titolo del possesso8, il diritto del concedente non si estingue per usucapione (art. 1164) poiché è possibile usucapire solo il diritto dell’enfiteuta ma non il dominio diretto del proprietario, per sua natura imprescrittibile; nemmeno vale in tal senso l’esercizio del potere di ricognizione ex art. 969 che non riguarda le enfiteusi perpetue ed è un diritto riconosciuto al concedente in materia di enfiteusi a tempo per impedire all’ex enfiteuta di usucapire il terreno. Così altra conseguenza per dottrina e giurisprudenza è l’imprescrittibilità del diritto del concedente (in quanto facoltà perpetua) a ottenere il pagamento del livello anche nei confronti di eredi o aventi causa del livellario che abbiano continuato a possedere il fondo senza pagare il canone per oltre vent’anni; è chiara a tale proposito la distinzione tra l’obbligo di pagare i canoni nel suo complesso dalla diversa obbligazione delle singole annualità scadute, soggetta a termine quinquennale di prescrizione.

A prescindere dall’affrancazione, l’enfiteuta/livellario acquista la piena proprietà per usucapione solo per interversione del possesso con cui muta la detenzione in possesso o l’esercizio del diritto reale su cosa altrui in possesso come facoltà derivante dall’esercizio del diritto di proprietà, ad esempio con la trasformazione irreversibile del fondo che non sia semplice miglioria9 e comunque in tutti quei casi in cui è chiara l’intenzione di esercitare da parte del livellario un potere nomine proprio.

4.4. 4.4. Livelli/enfiteusi in presenza di usi civici, esproprio ed esecuzione forzata

Per uso civico s’intende il diritto di godimento collettivo su beni immobili che spetta ai membri di una collettività su terreni di proprietà di terzi o comunali in base ad una prassi consolidata e collettiva. In quanto anch’essi pesi gravanti sui fondi, la cui sussistenza rende il fondo di proprietà privata inalienabile a pena di nullità dell’atto (con conseguente responsabilità del notaio rogante ex art. 28 L.N.), un’ipotesi particolare ha riguardato la concessione di livelli a favore di amministrazioni comunali pur in presenza di usi civici gravanti su quel determinato terreno.

Conclusive considerazioni meritano infine i casi di esproprio ed esecuzione forzata riguardanti fondi sui quali gravano enfiteusi o livelli. Tra i soggetti legittimati ad impugnare gli atti di una procedura ablatoria vi è l’enfiteuta/livellario,10 titolare di una posizione differenziata e qualificata11in relazione all’area su cui esercita il proprio diritto, quindi dell’interesse a impugnare il provvedimento espropriativo. In tema di esecuzione immobiliare avente ad oggetto il fondo gravato da livello il problema di stabilire la relativa natura dell’onere, emergente dall’atto di provenienza o dai certificati ipotecari, è affidato al professionista delegato alla vendita dal Giudice dell’esecuzione, potendosi verificare in particolare due situazioni possibili: il pignoramento del diritto di enfiteusi in concomitanza ad elementi processuali indicanti la maturata usucapione della piena proprietà e il pignoramento della piena proprietà, certificata dalla relazione notarile come originariamente diritto di enfiteusi dell’esecutato o dei suoi danti causa. In ordine alla prima ipotesi non potrà procedersi a modificazione del diritto oggetto di pignoramento da enfiteusi a piena proprietà. Se invece è pignorata la piena proprietà, ma emerge l’originaria natura di enfiteusi del diritto ed elementi indicanti la maturata usucapione, il professionista delegato non potrà prescindere da una segnalazione al Giudice dell’Esecuzione al quale il creditore procedente potrà richiedere un provvedimento di limitazione dell’espropriazione per quanto riguarda l’identificazione del diritto da sottoporre a vendita forzata. Infine, venduta la piena proprietà in presenza di livello, il decreto di trasferimento dovrà evidenziare tra le formalità pregiudizievoli l’impossibilità di cancellare tale onere, contrariamente alla vendita del solo diritto di enfiteusi per la quale non è necessario inserire la segnalazione di un eventuale possesso ventennale uti dominus, mancando un accertamento giudiziale in tal senso.

(Fonte Altalex)

Investire in Puglia con i finanziamenti Regionali del TITOLO II

Il Titolo II – Capo III – è uno strumento, attuato dalla Regione Puglia, per facilitare lo sviluppo delle attività economiche in questa regione.

Ne possono beneficiare le micro imprese che occupano meno di 10 persone e che realizzano un fatturato annuo o un totale di bilancio annuo non superiori a 2 milioni di euro, le imprese di piccole dimensioni che occupano meno di 50 persone e che realizzano un fatturato annuo o un totale di bilancio non superiori a 10 milioni di euro e le imprese di medie dimensioni che occupano meno di 250 persone e realizzano un fatturato annuo non superiore a 50 milioni di euro oppure il totale di bilancio annuo non supera i 43 milioni di euro.

Le imprese sopra elencate devono operare in una delle seguenti categorie:

  1. Imprese artigiane, costituite anche in forma cooperativa o consortile;
  2. Imprese che realizzano programmi di investimento nel settore del commercio:
  3. esercizi commerciali di vendita al dettaglio e all’ingrosso classificati esercizi di vicinato (superficie di vendita non superiore a 250mq);
  4. esercizi commerciali di vendita al dettaglio e all’ingrosso classificati M1 (medie strutture con superficie di vendita da 251 a 600 mq);
  5. esercizi commerciali di vendita al dettaglio d all’ingrosso classificati M2 (medie strutture con superficie di vendita da 601 a 1500mq);
  6. servizi di ristorazione di cui al gruppo “56” della “Classificazione delle Attività economiche ATECO 2007”, ad eccezione delle categorie “56.10.4” e “56.10.5”;
  7. attività di commercio elettronico (per commercio elettronico si intende l’attività commerciale svolta la tramite la rete internet);
  8. sezione “C”: imprese che realizzano investimenti riguardanti il settore delle attività manifatturiere – “Classificazione delle Attività economiche ATECO 2007”;
  9. sezione “F”: settore delle costruzioni – “Classificazione delle Attività economiche ATECO 2007”;
  10. sezione “J”: settore dei servizi di comunicazione ed informazione – “Classificazione delle Attività economiche ATECO 2007”;
  11. sezione “Q”: sanità e assistenza sociale – “Classificazione delle Attività economiche ATECO 2007”.

Sono invece escluse le aziende operanti nei settori, pesca e acquacoltura, costruzione navale, industria carboniera, siderurgia, fibre sintetiche, attività connesse con la produzione primaria (agricoltura e allevamento), trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli in specifici casi.

Sono ammissibili progetti di investimento di importo non inferiori a  30.000 per la creazione di una nuova unità produttiva, l’ampliamento di una unità produttiva esistente, diversificazione della produzione di uno stabilimento esistente per ottenere prodotti mai fabbricati precedentemente e il cambiamento fondamentale del processo di produzione complessivo di un’unità produttiva esistente.

Sono ammesse le spese per:

a)    l’acquisto del suolo aziendale e sue sistemazioni entro il limite del 10% dell’importo dell’investimento in Attivi materiali;

b)    opere murarie e assillabili;

c)    acquisto di macchinari, impianti e attrezzature varie nuovi di fabbrica;

d)    investimenti finalizzati al miglioramento delle misure di prevenzione dei rischi, salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

Mentre non sono ammissibili le spese notarili e quelle relative a imposte e tasse, le spese relative all’acquisto di scorte, le spese relative all’acquisto di macchinari attrezzature usati, titoli di spesa regolati in contanti, le spese di pura sostituzione, le spese di funzionamento in generale, le spese in leasing, tutte le spese non capitalizzate, le spese sostenute con commesse interne di lavorazione, anche se capitalizzate ed indipendentemente dal settore in cui opera l’impresa, titoli di spesa con importo complessivo dei beni inferiore a € 500,00,acquisto di beni non strettamente funzionali non a uso esclusivo dell’attività d’impresa, acquisto di beni facilmente deperibili, acquisto di mezzi mobili non sono ammissibili le spese di IPT, messa su strada, immatricolazione, le forniture attraverso un contratto “chiavi in mano”.

Il Titolo II prevede quindi un contributo in conto Impianti determinato sul montante degli Interessi di un finanziamento concesso da un Soggetto Finanziatore. L’intensità del contributo non potrà superare il 35% per le medie imprese ed il 45% per le piccole e microimprese.

Il contributo in conto impianti calcolato sul montante degli interessi comprenderà l’eventuale preammortamento per una durata massima di 12 mesi per i finanziamenti destinati all’acquisto di macchinari ed attrezzature ed una durata massima di 24 mesi per finanziamenti destinati all’ampliamento dello stabilimento.

Qualunque sia la maggior durata del contratto di finanziamento, il contributo in conto impianti determinato sul montante degli interessi sarà calcolato con riferimento ad una durata massima del finanziamento (al netto dell’eventuale periodo di preammortamento) di:

  • sette anni per i finanziamenti destinati alla creazione, all’ampliamento e/o all’ammodernamento dello stabilimento;
  • cinque anni per i finanziamenti destinati all’acquisto di macchinari, attrezzature, brevetti e licenze.

Le agevolazioni saranno calcolate su un importo finanziato massimo di € 4.000.000 in caso di medie imprese e € 2.000.000 in caso di piccole e microimprese.

Per gli investimenti di nuovi macchinari ed attrezzature potrà essere erogato un contributo aggiuntivo in conto impianti che non potrà essere superiore al 20% per un importo massimo erogabile di € 800.000 per le medie imprese e € 400.000 per le piccole e microimprese.

Per le imprese che hanno conseguito il rating di legalità, l’import massimo del contributo in conto impianti è elevato rispettivamente a € 850.000 e a € 450.000.

Registrazione del contratto preliminare e sanzioni

La registrazione del contratto preliminare è un passaggio importante della compravendita immobiliare: il documento, seppur non obbligatorio, vincola entrambe le parti, ovvero chi desidera vendere casa e chi la vuole acquistare, alla compravendita immobiliare e stabilisce le condizioni dell’accordo.

Tale operazione è regolamentata dalla normativa vigente e il mancato rispetto delle disposizioni può comportare pesanti sanzioni.

Se sei in procinto di comprare casa, prosegui nella lettura e scopri quando è obbligatorio registrare il contratto preliminare, come effettuare la registrazione e quali sono le conseguenze in caso di errore.

In quali casi registrare il contratto preliminare

Il contratto preliminare di compravendita è un documento vincolante che sancisce le condizioni che venditore e acquirente si impegnano a rispettare nel vendere e comprare casa. La sua redazione è un passaggio importante e delicato, per questo, che tu sia il compratore o il venditore, è fondamentale avere accanto un professionista esperto che possa aiutarti a districarti tra termini tecnici e clausole.

Partiamo da una premessa: la registrazione del contratto preliminare presso l’Agenzia delle Entrate è obbligatoria. Non è, quindi, consentito scegliere se eseguirla o meno. Si potrebbe, in teoria, evitare di firmare il contratto preliminare per stipulare direttamente il contratto definitivo di compravendita (il rogito), ma sarebbe rischioso e molto difficile.

La registrazione deve avvenire entro 20 giorni dalla stipula del contratto: in caso di ritardo si dovranno sostenere dei costi aggiuntivi e l’ammontare della sanzione sarà dipendente dall’entità del ritardo…

Il limite è di 30 giorni, invece, nel caso in cui il contratto venga redatto alla presenza di un notaio, nella forma di scrittura privata oppure dell’atto pubblico.

Come effettuare la registrazione del contratto

La registrazione del contratto preliminare per una compravendita immobiliare prevede alcuni precisi passaggi.

Prima di registrare il contratto preliminare presso l’Agenzia delle Entrate il compratore dovrà effettuare un versamento con il modello F24 per un importo fisso pari a 200 euro da applicare ogni 4 facciate oppure ogni 100 righe del compromesso.

Se l’acquirente ha depositato una caparra confirmatoria, l’imposta di registro sarà maggiorata dello 0,5% della caparra stessa, se invece le parti decidono per il versamento di un acconto sull’acquisto, ai 200,00 Euro si dovrà aggiungere il 3% dello stesso.

La registrazione del contratto preliminare può essere fatta soltanto in presenza della ricevuta di pagamento dell’imposta, sia dall’acquirente sia dall’agente immobiliare incaricato.

La procedura richiede due copie del documento con firma originale. Su ogni copia del contratto vanno applicate marche da bollo con questo criterio: per ogni 4 facciate di 100 righe occorre una marca da bollo da 16 euro.

Per consentire il versamento delle suddette somme, tramite modello F24, sono stati istituiti i seguenti codici tributo:

  • 1550codice tributo per l’imposta di registro, che sostituisce i codici tributo previsti dall’F23 e marcati con le sigle 104T, 105T e 109T
  • 1551: codice tributo per la sanzione sull’imposta di registro (ravvedimento)
  • 1552codice tributo per l’imposta di bollo. A differenza di quanto accadeva per il modello F23, dove si poteva versare solo l’imposta di registro, il modello F24 consente il pagamento diretto delle marche da bollo. In questo modo, non occorre più applicare sul contratto le marche da bollo fisiche, ma è sufficiente assolvere all’onere tramite quelle digitali rappresentate dal codice
  • 1553: codice tributo per la sanzione sull’imposta di bollo (ravvedimento)
  • 1554: codice tributo per gli interessi

Quali sono le sanzioni in caso di mancata registrazione del contratto preliminare

Se il contratto preliminare di compravendita non viene registrato entro i termini imposti dalla normativa vigente, si va incontro a sanzioni il cui ammontare è variabile in base all’entità del ritardo. Se la registrazione avviene entro 90 giorni, la sanzione sarà pari al 15% dell’ammontare dovuto. La percentuale sale al 24% se, invece, la registrazione avviene entro un anno dalla scadenza.

Le sanzioni sono più salate nel caso in cui il documento stipulato non venga registrato affatto: la somma può variare dal 120% al 240% dell’imposta dovuta.

Architettura e caratteristiche del rione “Terra” di Ostuni

Il rione “Terra”, ovvero il centro storico di Ostuni, nella sua massima espansione si viene a trovare quasi su di uno strapiombo, oggi in parte livellato da terrazzamenti agricoli e dalla costruzione di vie di comunicazione. Per questo motivo alcuni torrio­ni risultano oggi come sprofondati.

Il paese è situato su di una collina e poggia su di un terreno affiorante di tipo roccioso carsico: un tempo questa porzione di territorio ai piedi della cinta era abitata, difatti molte delle rocce af­fioranti sono state lavorate per definire spazi per il lavoro o il sedime di case. È ancora visibile una porzione di muro a sacco che si innesta da una tor­re, forse di un’abitazione.

Alcune abitazioni presentano un piano semi-in­terrato o interrato, talvolta coincidente con la struttura di frantoi ipogei, ovvero di grandi stanze ipostile per la lavorazione delle olive. Questi locali sottoposti sono in corrispondenza ad un salto di quota per cui posseggono finestre solo da un lato.

Alcune costruzioni trovano la loro collocazione al di sopra delle cinte murarie preesistenti, come ad esempio l’ex convento di clausura delle Bene­dettine – costruito nel 1530 – che ha la sua sede sul sedime delle mura angioine, ancora visibili nei sot­terranei dello stesso.

Le abitazioni tipiche.

La differenza maggiore si nota fra le costruzioni di tipo “povero” e quelle più nobili e signorili.

Nella prima categoria includiamo tutte le abitazio­ni del popolo, costituite solitamente da tre vani e accesso diretto su strada. Si dice infatti “sala, ar­cuéve e cammarìne” la tipica casa costituita da una sala (salotto e cucina), alcova sotto cui stava il letto matrimoniale e la cameretta per i bambini. In que­sta prima disposizione non trovava luogo il bagno, che inizia a comparire invece solo nel XX secolo o all’interno delle case, se disponevano di spazi più grandi, oppure all’esterno o come piccoli aggetti o come chiusura di terrazzi prima esistenti.

Solitamente costruite ad un unico livello, oggi spesso unite mediante l’inserimento di scale inter­ne non sempre congrue, talvolta tagliando le volte esistenti. La casa terranea era detta “sottana” ov­vero al piano di sotto (piano terra), mentre quella al primo piano era detta “soprana”. Per questo si assiste ad un’edilizia che varia tra 2 e al massimo 3 livelli. Se la casa al piano superiore era realizza­ta in concomitanza con quella al piano inferiore, la scala era realizzata internamente preferibilmente chiusa da una voltina a botte con la stessa penden­za della scala. In questo modo la scala era affianca­ta alle stanze, senza tagliarne le volte.

Dato il gran­de dislivello da superare (una stanza voltata può raggiungere anche i 3,50 o 4,00 m) e volendo occu­pare solo un lato della casa, l’alzata dei gradini ri­sulta particolarmente elevata, e difatti per ridurla si usa spesso già portarsi ad una quota maggiore su strada.

Nel caso in cui la sopraelevazione risulta successi­va, si assiste alla creazione di scale esterne, talvol­ta con piccoli ballatoi per distribuire al più due o tre appartamenti. In questo caso, circa la questio­ne statica, si devono indagare le connessioni fra la casa a piano terra e quella a primo piano e se la prima è capace di sopportare questa aggiunta di carico.

Alla fine del XVI secolo, durante la costruzione dei rioni extra moenia, si usava già preparare la sca­la che conduceva al terrazzo accanto della casa a piano terra, in modo tale che se si fosse voluto sopraelevare l’abitazione, non si sarebbe dovuto tagliare alcun solaio, né occupare la strada pubbli­ca. Passeggiando oggi per questi rioni si assiste in alcuni punti alla cristallizzazione di questo modo di procedere alla costruzione.

 Un’altra tipologia tipica era la casa con bottega, dove quest’ultima trovava l’ingresso in un porto­ne più grande e che termina con una chiusura ad archetto. La casa del padrone ha un ingresso indi­pendente a lato del portone della bottega e si svi­luppa al piano superiore.

Le scale erano larghe 3 palmi equivalenti a circa 78 cm, e il materiale da costruzione dei gradini, nelle scritture notarili, era specificato l’uso del carparo, le cui cave erano poco distanti dal centro.

Nel centro storico non mancano costruzioni più signorili, nate nei vari secoli accorpando più abita­zioni o ricostruendo porzioni di isolati. Queste abi­tazioni solitamente sono composte da due livelli e sono riconoscibili dall’esterno grazie ai portali fi­nemente decorati e all’arme, ovvero agli scudi de­corativi con lo stemma ed il motto delle famiglie.

Altra tipologia di case sono quelle a corte, talvolta appartenente ad una sola famiglia ma molto spes­so su cui si affacciano anche più case. Questo modo di costruire è proprio dell’epoca normanna e assi­curava alle famiglie di poter avere un piccolo spa­zio all’aperto in cui coltivare qualcosa.

Nella Terra vi erano inoltre alcuni spazi cintati te­nuti a giardino od orto, che avrebbero assicurato in caso di assedio una possibilità di rifornimento di viveri di prima necessità. Vi erano inoltre cister­ne, spesso di semplice raccolta delle acque mete­oriche convogliate dai tetti, che invece servivano per rifornirsi di acqua.

Materiali da costruzione e murature.

Nella terra di Ostuni le cave principali sono di pie­tra calcarea o calcarenitica, la quale è usata sia come materiale da costruzione che per ricavare l’intonaco per i rivestimenti. La pie­tra ostunese, in particolare, è un calcare compatto color bianco avorio ed è ottimo perché pur essendo compatto è allo stesso tempo duttile nella lavorazione e resi­stente agli agenti atmosferici in virtù d’una patina brunastra che, formandosi col passar degli anni, lo rende immune dall’erosione.

Tale materiale, insie­me alla così detta pietra gentile, venivano lavorate con gli scalpelli per definire modanature e decora­zioni, come l’arme (stemmi nobiliari) e le cornici di porte e finestre. Con la calce si realizza sia la malta per l’alletta­mento delle pietre, che il latte di calce per le finitu­re ad intonaco. Questo veniva passato ogni anno su tutte le costruzioni per cui risulta ancora leggibile in molti punti della città la stratificazione.

Tutte le architetture di maggior pregio (Chiese e palazzotti nobiliari) sono costruite con la pietra di Ostuni lasciata a vista, mentre le case del po­polo erano costruite principalmente con tufo o pietre meno pregiate poi imbiancate a calce. Oltre al pregio legato alla materia, vi è un pregio legato alla lavorazione della stessa. I conci sono sempre squadrati ma con molta più precisione e attenzio­ne nell’edilizia aulica, che quindi vede corsi più alti e meno malta di allettamento. Al contrario nelle abitazioni povere i conci sono solo sbozzati con strumenti meno precisi e quindi necessitano di maggiore malta per l’allettamento.

Una regolarità nella definizione dell’apparecchia­tura muraria ovvero l’uso di conci di dimensione sempre uguale e la presenza di poca malta di allet­tamento insieme a una distribuzione sfalsata dei giunti verticali, garantisce una migliore risposta ad eventuali sollecitazioni orizzontali.

Lo spessore delle pareti è elevato e si aggira attor­no ai 40 cm minimo, permettendo così la creazio­ne di nicchie di varie dimensioni. La muratura era solitamente costruita a sacco, ovvero creando due paramenti con conci di pietra più regolari e riem­piti con pietre di dimensione inferiore e irregolari. Anche i palazzi signorili presentano l’uso di mu­ratura a sacco ma più stabile grazie ai diatoni di collegamento dei due paramenti.

Solai e coperture.

Inizialmente i solai di interpiano furono definiti con l’uso delle travi di legno con rivestimento in cannicciato e paglia, sostituiti poi con volte in pie­tra soprattutto a seguito degli eventi sismici. In pochissimi punti della città vi sono ancora oggi tracce dei legni usati nella costruzione.

All’interno del Museo delle Arti Preclassiche, ovve­ro dell’ex Monastero delle Monache Carmelitane, si vede un pezzo del torchio per la produzione del mosto, tagliato e posato per creare l’architrave di una porta. In altri punti della città si legge l’uso del legno sempre come architrave, sia di porte che di nicchie. Oggi invece tutte le stanze sono chiuse da volte in pietra di diversa tipologia. Nel Salento sono usate delle forme differenti dal resto d’Italia ed in parti­colare troviamo le volte a botte con unghie, le vol­te a squadro e le volte a stella con quattro od otto punte. Le volte botte semplici sono utilizzate per camere di dimensione minore o per le alcove.

Le volte a stella, dette anche a spigolo, nascono nel XVII secolo e trovano la loro diffusione maggio­re nel Salento poiché sono caratterizzate dall’uso della pietra calcarea. Sono un tipo di volta mol­to complesso e composto da varie fasi costrut­tive. Prima di tutto si costruiscono quattro pilastri quadrangolari su cui si imposta­no i pennacchi detti appigli o appese in dialetto. I pennacchi, assimilabili a una specie di pulvino dalla forma tronco-piramidale, aiutano a definire l’orientamento degli archi e a ridurne l’ampiezza, poiché aumentano la dimensione dell’apice del piedritto su cui poggia la volta. Le forze verranno scaricate su questi pilastri, per cui la muratura la­terale risulterà un tamponamento non necessario ai fini strutturali.

Vengono installate poi le forma­te, ovvero gli archi che determinano la lunghezza e l’altezza della volta, e che collegano i vari pilastri a definire il perimetro della stanza. A partire dal­le formate, si innestano due calotte simili a volte a botte, dette unghie, ed un’ulteriore calotta che contiene la chiave di volta. Il risultato è una volta molto simile ad una crociera ma con un disegno stilizzato di una stella.

Esiste anche una forma così detta a stella doppia o a otto punte, poiché in ogni pennacchio giungono 2 punte. Il pilastro che sostiene la volta è a forma di L. Il processo costruttivo è il medesimo, tranne che si viene a creare uno spazio fra le due punte per ogni angolo che verrà chiuso da un elemento tipo cuneo detto cappuccio.

La volta a stella a 4 punte copre spazi più piccoli con lato di dimensione compresa fra 4,00 e 5,50 metri, mentre se con 8 punte si possono coprire spazi di lato minimo 6,00 metri. 

Circa le coperture, la maggior parte è prettamente di tipo piano, caratterizzata dal così detto lastrico solare in battuto di terra, con chianche di colore grigio scuro che seguono l’andamento degli estra­dossi delle volte. Pochissime abitazioni e le Chiese terminano invece con un tetto a falda doppia e co­pertura in coppi.

La costruzione di volte in pietra, a botte o a crociera è stata utilizzata anche per ricavare stanze costru­ite a cavallo di strade. Lungo le vie di assiste infatti ad una serie di archi, solitamente di tipo rampante isolati o a tutto sesto con sopra l’abitazione. Que­sto garantisce che gli sforzi sono divisi equamente a destra e a sinistra su entrambe le murature. Le gallerie che così si definiscono hanno lunghezza differente ospitando una o due stanze al massimo, solitamente con ad un piano solo tranne per alcuni casi in cui si assiste a due stanze sovrapposte.

Usucapione beni immobili: di cosa si tratta e come funziona

L’usucapione dei beni immobili e dei diritti reali immobiliari è disciplinata dall’articolo 1158 del Codice civile, che afferma: “La proprietà dei beni immobili e gli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi si acquistano in virtù del possesso continuato per venti anni”. Partendo da questa definizione, nella pratica, quando si può parlare di usucapione dei beni immobili? Cosa dice la legge in merito? Come ci si deve comportare? E come funziona l’usucapione di un immobile? Facciamo un po’ di chiarezza.

Che cos’è l’usucapione?

“L’usucapione è formalmente un modo di acquisto della proprietà a titolo originario. E’ importante ricordare che la proprietà si può acquistare a titolo derivativo o a titolo originario. La proprietà si acquista a titolo derivativo quando l’acquisto deriva da qualcun altro, il caso classico è quello della compravendita. La proprietà si acquista a titolo originario quando non vi è proprietario e non si sa chi lo sia e qualcuno diventa proprietario a titolo originario, è questo il caso dell’usucapione. L’usucapione dunque è un modo di acquisto della proprietà a titolo originario, cioè senza un precedente proprietario”.

Come funziona e quando si può parlare di usucapione dei beni immobili?

“L’usucapione di un bene immobile avviene per il possesso continuato e incontestato per 20 anni. Questo è quanto disposto dall’articolo 1158 del Codice civile. E’ una questione di possesso continuato, incontestato e con l’animus del proprietario. L’animus è molto difficile da provare, ma sostanzialmente chi possiede quel bene deve possederlo nella convinzione di esserne proprietario, non nella convinzione di averlo in qualche modo sottratto a qualcun altro. Il termine e l’incontestabilità del possesso sono invece dati oggettivi. Qualora nell’arco dei 20 anni intervenga un fatto che in qualche modo contesti il possesso, il decorso dei 20 anni viene interrotto”.

In che modo avviene il passaggio da possesso a proprietà del bene?

“Nel momento in cui decorre il termine, quindi 20 anni per l’usucapione ordinaria, si diventa proprietari in automatico per il semplice decorso del termine. La proprietà però va poi fatta risultare nei Pubblici Registri. Quindi, in realtà, il solo modo per accertare l’intervenuto decorso dei 20 anni a seguito di quel possesso incontestato è una sentenza del giudice. E’ necessaria dunque una sentenza del giudice che dichiari intervenuta l’usucapione.

Fino al 2013 arrivare alla sentenza del giudice era estremamente complesso. Occorreva attivare una causa, citando chi risultava da qualche documento controinteressato e potenziale proprietario a sua volta, causa che si poteva tenere anche in contumacia. Il giudice, non avendo altro strumento che la prova testimoniale, faceva le opportune verifiche e – ove non intervenisse alcun fatto contrario – dichiarava intervenuta l’usucapione. La sentenza veniva trascritta e a quel punto teneva luogo dell’atto d’acquisto, dando quindi per accertata l’usucapione.

C’è stato un periodo in cui i notai dichiaravano intervenuta l’usucapione su dichiarazione di parte: dovendo vendere un bene di cui non si riusciva a trovare il titolo di acquisto in capo alla persona che veniva in atto, la persona dichiarava di possederlo da più di 20 anni a titolo di proprietario in modo incontestato, di questo si informava il compratore e se quest’ultimo era d’accordo si faceva l’atto. Di fatto, sono intervenute alcune sentenze, anche della Cassazione, che hanno affermato che questo non è possibile, perché deve essere una sentenza del giudice a dichiarare intervenuta l’usucapione.

Nel 2013 poi è stato inserito un nuovo comma nell’articolo 2643 del Codice civile, il comma 12 bis. In base a tale comma, anziché arrivare alla pronuncia del giudice e alla sentenza, è possibile trascrivere e quindi sostituire alla sentenza o all’atto notarile un verbale di mediazione che accerta l’usucapione. Questo ha molto snellito le problematiche legate all’usucapione”.

Come funziona e in cosa consiste la mediazione?

“Questa procedura deve essere attivata presso un organismo di mediazione riconosciuto iscritto in un registro del Ministero di Giustizia. Il procedimento consiste nell’attivare la mediazione contro qualcuno che potrebbe essere proprietario. La semplificazione enorme sta nel fatto che dall’incontro tra le parti, in cui viene trovato un accordo, esce un verbale che deve essere firmato dalle parti stesse, dagli avvocati e deve essere autenticato da un notaio. A questo punto il verbale viene trascritto e si sostituisce alla sentenza o all’atto di compravendita. I vantaggi stanno nel fatto che la mediazione dura al massimo tre mesi, contro i circa due anni necessari per ottenere una sentenza del giudice, e in più l’accordo di mediazione fino a 50.000 euro di valore del bene usucapito è esente da imposte di registro”.

E’ possibile interrompere l’usucapione? In che modo?

“Qualsiasi azione che contesti l’usucapione interrompe il termine. I modi sono ovviamente numerosi, dato che per usucapione si possono acquistare non soltanto i beni immobili, ma anche i diritti reali sui beni immobili.

Nel caso di un alloggio, ad esempio, se nel corso dei 20 anni stabiliti a chi possiede perviene la lettera di qualcuno che afferma che il possesso di quell’alloggio non è legittimo, quella stessa lettera interrompe il decorso dei 20 anni necessari per poter parlare di usucapione di quel bene immobile. Nel caso invece di una servitù di passaggio, se un soggetto passa per 20 anni su un terreno nella convinzione di poterlo fare, senza che nessuno contesti il passaggio, dopo 20 anni acquista per usucapione non la proprietà, ma il diritto di passaggio. Se il proprietario del terreno mette un cancello, quello in automatico interrompe il ventennio, perché non è più incontestata la facoltà di passare.

Bisogna poi ricordare che l’articolo 1159 del Codice civile parla di usucapione decennale. In merito, se l’acquisto da parte di colui che usucapisce è avvenuto in forza di un titolo idoneo a trasferire la proprietà, allora l’usucapione si compie con il decorso di 10 anni”.

Quali beni immobili rientrano più di frequente nei casi di usucapione?

“Per un alloggio i casi di usucapione sono rarissimi, per un terreno – soprattutto nelle zone di campagna e nell’Italia più rurale – sono piuttosto frequenti, per quello che riguarda in particolar modo le servitù sono assolutamente frequenti. Nell’Italia più industrializzata si verifica soprattutto per gli accessori degli alloggi, quindi cantine e soffitte, qualche volta per i box”.

Categorie catastali A, B, C, D, E e F: cosa sono e quali sono le differenze

Le categorie catastali sono dei codici che distinguono gli immobili in base alle loro caratteristiche strutturali e costruttive e al loro uso. Sono divise in sei gruppi, ognuno dei quali è composto da molteplici sottocategorie.

Quali sono le categorie catastali

Le categorie catastali previste dal nostro ordinamento sono sei: A, B, C, D, E e F. Ognuna di esse ricomprende al proprio interno immobili che hanno caratteristiche simili, meglio individuati con divisioni interne a ciascuna categoria.

Ad esempio, nella categoria A rientrano, in generale, le abitazioni. Le varie sottocategorie, ad esempio A/1, A/2, A/3 e così via, individuano poi la specifica tipologia di abitazione di cui si tratta.

Categorie catastali: a cosa servono

Le categorie catastali possono avere molteplici finalità. Quella principale, tuttavia, è di dare una logica all’individuazione della rendita catastale di un certo immobile e di modulare la tassazione a seconda delle sue caratteristiche, della destinazione dello stesso e dell’uso che ne viene formalmente fatto.

Destinazione ordinaria e speciale 

Prima di analizzare nel dettaglio quali immobili vanno ricompresi in una o in un’altra categoria e sottocategoria, appare opportuno segnalare che le diverse categorie catastali possono essere suddivise in due raggruppamenti:

  1. gli immobili a destinazione ordinaria sono quelli riconducibili alle categorie A, B, e C;
  2. gli immobili a destinazione straordinaria sono quelli riconducibili alle categorie D, E e F.

Categoria catastale A

La categoria catastale A, come accennato, contempla le abitazioni e si suddivide nelle seguenti sottocategorie:

  • A/1: abitazioni di tipo signorile;
  • A/2: abitazioni di tipo civile;
  • A/3: abitazioni di tipo economico;
  • A/4: abitazioni di tipo popolare;
  • A/5: abitazioni di tipo ultrapopolare;
  • A/6: abitazioni di tipo rurale;
  • A/7: abitazioni in villini;
  • A/8: abitazioni in ville;
  • A/9: castelli, palazzi di eminenti pregi storici o artistici;
  • A/10: studi e uffici privati;
  • A/11: alloggi e abitazioni tipiche dei luoghi.

Categoria catastale B 

Nella categoria catastale B rientrano gli immobili facenti parte del patrimonio immobiliare urbano, così suddivisi:

  • B/1: collegi, orfanotrofi, conventi, seminari, ricoveri, ospizi, caserme;
  • B/2: ospedali e case di cura senza fine di lucro;
  • B/3: riformatori e prigioni;
  • B/4: uffici pubblici;
  • B/5: laboratori scientifici e scuole;
  • B/6: accademie, gallerie, musei, pinacoteche, biblioteche (che non si trovano all’interno di palazzi di pregio e castelli appartenenti alla categoria A/9);
  • B/7: oratori e cappelle non destinate all’esercizio pubblico del culto;
  • B/8: magazzini sotterranei per depositi di derrate.

Categoria catastale C

Nella categoria C rientrano gli immobili di uso commerciale e terziario. Le sue sottocategorie sono:

  • C/1: locali commerciali;
  • C/2: locali di deposito e magazzini;
  • C/3: laboratori per arti e mestieri;
  • C/4: locali e fabbricati per esercizi sportivi senza fine di lucro;
  • C/5: stabilimenti di acque curative e balneari senza fine di lucro;
  • C/6: autorimesse, rimesse, scuderie e stalle senza fine di lucro;
  • C/7: tettoie aperte o chiuse.

Categoria catastale D

La categoria catastale D ricomprende gli immobili speciali a fine produttivo o terziario, ovverosia:

  • D/1: opifici;
  • D/2: alberghi con fine di lucro;
  • D/3: sale per spettacoli e concerti, cinematografi e teatri con fine di lucro;
  • D/4: ospedali e case di cura con fine di lucro;
  • D/5: istituti di assicurazione, cambio o credito con fine di lucro;
  • D/6: locali e fabbricati per esercizi sportivi con fine di lucro;
  • D/7: fabbricati costruiti o adattati per le speciali esigenze di un’attività industriale e non suscettibili di destinazione diversa senza radicali trasformazioni;
  • D/8: fabbricati costituiti o adattati per le speciali esigenze di un’attività commerciale e non suscettibili di destinazione diversa senza radicali trasformazioni;
  • D/9: edifici sospesi o galleggianti assicurati a punti fissi del suolo, ponti privati a pedaggio;
  • D/10: fabbricati rurali.

Categoria catastale E 

Anche la categoria E ricomprende immobili a destinazione speciale, in particolare:

  • E/1: stazioni per servizi aerei, marittimi, terrestri e di trasporto;
  • E/2: ponti comunali e provinciali a pedaggio;
  • E/3: fabbricati e costruzioni per esigenze pubbliche speciali;
  • E/4: recinti chiusi per esigenze pubbliche speciali;
  • E/5: fabbricati costituenti fortificazioni e loro dipendenze;
  • E/6: torri, semafori e fari per rendere d’uso pubblico l’orologio comunale;
  • E/7: fabbricati destinati all’esercizio pubblico dei culti;
  • E/8: costruzioni e fabbricati nei cimiteri, esclusi i sepolcri, i colombari e le tombe di famiglia;
  • E/9: edifici a destinazione particolare non compresi nelle categorie precedenti del gruppo E.

Categoria catastale F

Infine, fanno parte della categoria catastale F le unità immobiliari urbane che non sono idonee a produrre ordinariamente un reddito.

Le sottocategorie previste sono le seguenti:

  • F/1: aree urbane;
  • F/2: unità collabenti;
  • F/3: unità in corso di costruzione;
  • F/4: unità in corso di definizione;
  • F/5: lastrici solari;
  • F/6: fabbricato in attesa di dichiarazione;
  • F/7: infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione.

Come calcolare la redditività di un immobile

Per far sì che un investimento abbia successo e sia redditizio non basta fare supposizioni generiche e personali: calcola la redditività di un immobile e assicurati un acquisto che ti possa dare frutti negli anni a venire.

Valutazioni precise portano a un maggior rendimento dell’investimento

Gli investimenti non devono essere visti come un colpo di fortuna dall’esito quasi impossibile da prevedere; al contrario, quando si acquista un immobile con lo scopo di trarne un ritorno economico, è molto importante fare in anticipo le dovute valutazioni a breve e a lungo termine. Più si è in grado di effettuare valutazioni precise, maggiore sarà anche la precisione della previsione del rendimento del proprio investimento immobiliare.

Quando si parla di investimenti immobiliari, è sempre opportuno verificare che il proprio immobile sia davvero una fonte di reddito e non una spesa, altrimenti non ha senso tenerlo nel proprio portafoglio immobili ed è consigliabile venderlo al più presto.

E’ necessario ed opportuno ricercare una serie di informazioni prima di effettuare un acquisto importante come un immobile, per esempio analizzando l’appetibilità attuale della localizzazione dell’immobile e i potenziali cambiamenti attesi nel quartiere circostante. Ma l’informazione fondamentale che permette agli investitori di prendere una decisione, è senza dubbio il tasso di rendimento o di redditività di un immobile.

Scopri come calcolare il tasso di rendimento di un immobile

I 3 step per il calcolo della redditività di un immobile:

  • Calcolare il reddito lordo annuo dell’immobile
  • Sottrarre i costi operativi
  • Dividere per il prezzo d’acquisto

Vediamoli ora nel dettaglio.

Per prima cosa dovresti calcolare il reddito lordo annuo dell’immobile su cui si è investito

Il reddito lordo di un immobile è dettato principalmente dall’appetibilità alla locazione. In altre parole, quando si acquista un immobile come investimento, di solito se ne ricava un profitto semplicemente affittandolo a degli inquilini.

Per esempio, hai appena acquistato un immobile che vorresti dare in affitto ad un prezzo di €500/mese. Con questo canone di affitto, ti aspetterai di incassare esattamente 500 × 12 = €6.000 all’anno di reddito lordo prodotto dalla proprietà.

A questo punto, sottrai dal reddito lordo i costi operativi relativi alla proprietà

Detenere la proprietà di un immobile sottintende dei costi da sostenere, ovvero costi di manutenzione, assicurazione, tasse e spese di gestione dell’immobile. Una volta individuati e sommati questi costi, sottraili dalla somma dal reddito lordo che hai appena calcolato: questo è il reddito netto del fabbricato.

Per esempio, supponi che dopo aver stimato l’immobile da affittare, hai calcolato che dovrai sostenere ogni anno €500 di costi per la gestione dell’immobile, €250 di manutenzione, €200 di tasse e €350 di assicurazione. Dunque, €6.000 – €500 – €250 – €200 – €350 = €4.700, questo è il reddito netto della tua proprietà.

Ora dividi il reddito netto per il prezzo di acquisto dell’immobile

Il tasso di rendimento è dato dal rapporto tra il reddito netto della proprietà e il suo prezzo originario e viene espresso in forma percentuale.

Identificato il valore complessivo di acquisto e determinato il reddito netto, ora non ti resta che fare una semplice divisione tra il reddito netto e l’importo totale dell’acquisto dell’immobile.

La formula ti permette di determinare la redditività netta dell’operazione immobiliare: Redditività % = (Reddito Netto / Costo Complessivo Acquisto) x 100.

Supponi di aver acquistato l’immobile a €50.000. Fornito questo dato, hai tutti gli elementi necessari per determinare il tasso di rendimento.

Riprendendo i dati precedenti: €4.700 (reddito netto) / €50.000 (prezzo d’acquisto) = 0,094 = tasso di rendimento 9,4%.

Utilizza in modo intelligente il Tasso di Rendimento

Calcolato il tasso di rendimento, puoi iniziare a confrontare velocemente diverse opportunità di investimento simili a quella che vuoi intraprendere.

In breve, il tasso di rendimento rappresenta il ritorno percentuale stimato che si potrebbe ottenere con l’acquisto di un immobile. Per questo motivo, il tasso di rendimento è un ottimo indicatore che puoi utilizzare per confrontare un potenziale acquisto con altre opportunità di investimento simili.

Il tasso di rendimento permette di effettuare confronti semplici e veloci delle potenziali entrate provenienti da proprietà immobiliari acquistate a scopo di investimento e può essere utile per restringere la lista delle scelte possibili.

Per esempio, supponi di dover valutare l’acquisto di due immobili nello stesso quartiere: uno ha un tasso di rendimento del 9%, mentre l’altro del 14%. Questo confronto iniziale fa prediligere il secondo immobile, ovvero ci si aspetta che questo generi più denaro per ogni euro investito per acquistarlo.

Non usare il tasso di rendimento come unico indicatore per determinare la qualità di un investimento

Sebbene il tasso di rendimento dia la possibilità di confrontare due o più unità immobiliari, non è certo l’unico elemento da tenere in considerazione. Gli investimenti immobiliari possono essere abbastanza complicati: investimenti apparentemente semplici potrebbero diventare oggetto di speculazioni di mercato e di eventi imprevisti che vanno al di là della portata del semplice calcolo del tasso di redditività di un immobile. Come minimo, dovresti anche considerare il potenziale di crescita del reddito prodotto dall’immobile, come anche le variazioni di valore della proprietà stessa.

Per esempio, supponi di acquistare un immobile a €750.000, calcolando di guadagnare dalla messa a reddito dello stesso ogni anno €75.000, quindi ciò che ti aspetti è di avere un tasso di rendimento del 10%. Se il mercato immobiliare locale si modifica e il valore dell’immobile aumenta a €1.500.000, improvvisamente avrai un tasso di rendimento meno profittevole, pari al 5%. In questo caso potrebbe essere saggio vendere l’immobile e investire i relativi profitti in un altro investimento.

Utilizza il tasso di rendimento per giustificare il livello di reddito dell’immobile

Se si è a conoscenza del tasso di rendimento medio nella zona in cui è situato l’immobile, si può usare questa informazione per determinare il reddito che la proprietà deve produrre affinché l’investimento sia conveniente.

Per farlo, basta moltiplicare semplicemente il prezzo richiesto per l’acquisto, per il tasso di rendimento di immobili simili nella zona, trovando così il reddito netto consigliato.

Per esempio, se hai acquistato un immobile per €500.000 in una zona in cui la gran parte delle proprietà simili hanno un tasso di rendimento di circa l’8%, puoi calcolare il reddito consigliato moltiplicando 500.000 × 0,08 = €40.000. Questo rappresenta il reddito netto che l’immobile dovrebbe produrre ogni anno per avere un tasso di rendimento pari all’8%, quindi dovrai adeguare di conseguenza il relativo canone di locazione.

Calcolare la redditività di un immobile è necessario ma non sufficiente!

Il tasso di rendimento non tiene conto dei rischi futuri, dunque non si può fare affidamento solo sul tasso di redditività di un immobile per supporre che esso sia in grado di assicurare il reddito o il valore attuale.

L’immobile e i relativi affitti possono apprezzarsi o deprezzarsi nel corso del tempo e le spese potrebbero contestualmente aumentare facendo sballare i conti. Il tasso di rendimento per calcolare la redditività di un immobile può offrire una previsione sulla qualità dell’investimento da fare, ma non consente di fare alcun tipo di previsione sui rischi che riserva il futuro.

Nonostante ciò, trascorso ormai il periodo nero in cui gli immobili hanno visto un rapido deprezzamento dovuto alla recessione economica, l’investimento nel mattone resta ancora una delle migliori opportunità per chi vuole ottenere dai propri risparmi una rendita in costante aumento.

Chi deve pagare le spese di un atto notarile?

L’articolo 1475 del codice civile prevede che “Le spese del contratto di vendita e le altre accessorie sono a carico del compratore, se non è stato pattuito diversamente”.

Peraltro, come detto, è fatta salva la possibilità di stipulare patti in deroga alle previsioni del codice e quindi addossare al venditore il pagamento dei costi notarili.

Il principio generale delle spese

La norma esprime il principio generale secondo il quale il costo dell’atto notarile, comprensivo di imposte, tasse, spese ed onorario, gravano sul soggetto che ha maggior interesse alla conclusione del contratto, in applicazione del quale usualmente le spese della compravendita gravano sul compratore, quelle della donazione sul donatario, quelle della permuta su entrambi i permutanti, quelle della divisione su tutti i condividenti, quelle di un mutuo sul mutuatario, quelle di costituzione della società sui soci fondatori o sulla stessa società, e così via.

La solidarietà di tutti i partecipanti all’atto

Peraltro l’articolo 78 della Legge 16 Febbraio 1913 n. 89 (Ordinamento del notariato) prevede una responsabilità solidale di tutte le parti partecipanti all’atto “le parti sono tenute in solido verso il notaio tanto al pagamento degli onorari e diritti accessori quanto al rimborso delle spese.

Il notaio può rifiutarsi verso chiunque alla spedizione delle copie degli estratti e dei certificati, finchè l’accennato pagamento o, rimborso, non sia stato interamente eseguito” e l’art. 28, ultimo comma, della legge notarile dispone che “il notaro può ricusare il suo ministero se le parti non depositino presso di lui l’importo delle tasse, degli onorari e delle spese dell’atto”.

Il principio della solidarietà serve quindi a tutelare il Notaio dai rischi derivabili dalla insolvenza delle parti per gli atti da lui ricevuti in quanto l’attività notarile, svolta nell’ambito di un rigido sistema di controlli pubblici, costituisce esplicazione di un compito delegato dallo Stato: c.d. esercizio privato di pubbliche funzioni.

Dalla natura pubblica del servizio offerto – caratterizzato dall’obbligatorietà della prestazione professionale – discende la rilevanza costituzionale dell’intervento notarile, la cui importanza traspare anche nell’ambito del sistema tributario, con la riscossione delle imposte dovute per gli atti ricevuti.

La rinuncia alla solidarietà delle Banche

Spesso gli Istituti di Credito e le banche inseriscono nei contratti di mutuo una clausola con cui le parti stabiliscono a carico di una di esse l’ onere della parcella notarile.

Tale clausola, se da un lato è del tutto legittima e quindi valida fra le parti, dall’altro non intacca affatto il principio di solidarietà nei confronti del notaio, fatto salvo ovviamente il diritto di rivalsa fra le parti.

Altra cosa è invece la rinuncia da parte del notaio al diritto di solidarietà tra le parti. Tale diritto è senz’altro rinunciabile e infatti è prassi costante di alcune banche far firmare al notaio una dichiarazione extra-contrattuale con la quale egli rinuncia alla solidarietà delle parti in ordine alle spese.

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