Registrazione del contratto preliminare e sanzioni

La registrazione del contratto preliminare è un passaggio importante della compravendita immobiliare: il documento, seppur non obbligatorio, vincola entrambe le parti, ovvero chi desidera vendere casa e chi la vuole acquistare, alla compravendita immobiliare e stabilisce le condizioni dell’accordo.

Tale operazione è regolamentata dalla normativa vigente e il mancato rispetto delle disposizioni può comportare pesanti sanzioni.

Se sei in procinto di comprare casa, prosegui nella lettura e scopri quando è obbligatorio registrare il contratto preliminare, come effettuare la registrazione e quali sono le conseguenze in caso di errore.

In quali casi registrare il contratto preliminare

Il contratto preliminare di compravendita è un documento vincolante che sancisce le condizioni che venditore e acquirente si impegnano a rispettare nel vendere e comprare casa. La sua redazione è un passaggio importante e delicato, per questo, che tu sia il compratore o il venditore, è fondamentale avere accanto un professionista esperto che possa aiutarti a districarti tra termini tecnici e clausole.

Partiamo da una premessa: la registrazione del contratto preliminare presso l’Agenzia delle Entrate è obbligatoria. Non è, quindi, consentito scegliere se eseguirla o meno. Si potrebbe, in teoria, evitare di firmare il contratto preliminare per stipulare direttamente il contratto definitivo di compravendita (il rogito), ma sarebbe rischioso e molto difficile.

La registrazione deve avvenire entro 20 giorni dalla stipula del contratto: in caso di ritardo si dovranno sostenere dei costi aggiuntivi e l’ammontare della sanzione sarà dipendente dall’entità del ritardo…

Il limite è di 30 giorni, invece, nel caso in cui il contratto venga redatto alla presenza di un notaio, nella forma di scrittura privata oppure dell’atto pubblico.

Come effettuare la registrazione del contratto

La registrazione del contratto preliminare per una compravendita immobiliare prevede alcuni precisi passaggi.

Prima di registrare il contratto preliminare presso l’Agenzia delle Entrate il compratore dovrà effettuare un versamento con il modello F24 per un importo fisso pari a 200 euro da applicare ogni 4 facciate oppure ogni 100 righe del compromesso.

Se l’acquirente ha depositato una caparra confirmatoria, l’imposta di registro sarà maggiorata dello 0,5% della caparra stessa, se invece le parti decidono per il versamento di un acconto sull’acquisto, ai 200,00 Euro si dovrà aggiungere il 3% dello stesso.

La registrazione del contratto preliminare può essere fatta soltanto in presenza della ricevuta di pagamento dell’imposta, sia dall’acquirente sia dall’agente immobiliare incaricato.

La procedura richiede due copie del documento con firma originale. Su ogni copia del contratto vanno applicate marche da bollo con questo criterio: per ogni 4 facciate di 100 righe occorre una marca da bollo da 16 euro.

Per consentire il versamento delle suddette somme, tramite modello F24, sono stati istituiti i seguenti codici tributo:

  • 1550codice tributo per l’imposta di registro, che sostituisce i codici tributo previsti dall’F23 e marcati con le sigle 104T, 105T e 109T
  • 1551: codice tributo per la sanzione sull’imposta di registro (ravvedimento)
  • 1552codice tributo per l’imposta di bollo. A differenza di quanto accadeva per il modello F23, dove si poteva versare solo l’imposta di registro, il modello F24 consente il pagamento diretto delle marche da bollo. In questo modo, non occorre più applicare sul contratto le marche da bollo fisiche, ma è sufficiente assolvere all’onere tramite quelle digitali rappresentate dal codice
  • 1553: codice tributo per la sanzione sull’imposta di bollo (ravvedimento)
  • 1554: codice tributo per gli interessi

Quali sono le sanzioni in caso di mancata registrazione del contratto preliminare

Se il contratto preliminare di compravendita non viene registrato entro i termini imposti dalla normativa vigente, si va incontro a sanzioni il cui ammontare è variabile in base all’entità del ritardo. Se la registrazione avviene entro 90 giorni, la sanzione sarà pari al 15% dell’ammontare dovuto. La percentuale sale al 24% se, invece, la registrazione avviene entro un anno dalla scadenza.

Le sanzioni sono più salate nel caso in cui il documento stipulato non venga registrato affatto: la somma può variare dal 120% al 240% dell’imposta dovuta.

Usucapione beni immobili: di cosa si tratta e come funziona

L’usucapione dei beni immobili e dei diritti reali immobiliari è disciplinata dall’articolo 1158 del Codice civile, che afferma: “La proprietà dei beni immobili e gli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi si acquistano in virtù del possesso continuato per venti anni”. Partendo da questa definizione, nella pratica, quando si può parlare di usucapione dei beni immobili? Cosa dice la legge in merito? Come ci si deve comportare? E come funziona l’usucapione di un immobile? Facciamo un po’ di chiarezza.

Che cos’è l’usucapione?

“L’usucapione è formalmente un modo di acquisto della proprietà a titolo originario. E’ importante ricordare che la proprietà si può acquistare a titolo derivativo o a titolo originario. La proprietà si acquista a titolo derivativo quando l’acquisto deriva da qualcun altro, il caso classico è quello della compravendita. La proprietà si acquista a titolo originario quando non vi è proprietario e non si sa chi lo sia e qualcuno diventa proprietario a titolo originario, è questo il caso dell’usucapione. L’usucapione dunque è un modo di acquisto della proprietà a titolo originario, cioè senza un precedente proprietario”.

Come funziona e quando si può parlare di usucapione dei beni immobili?

“L’usucapione di un bene immobile avviene per il possesso continuato e incontestato per 20 anni. Questo è quanto disposto dall’articolo 1158 del Codice civile. E’ una questione di possesso continuato, incontestato e con l’animus del proprietario. L’animus è molto difficile da provare, ma sostanzialmente chi possiede quel bene deve possederlo nella convinzione di esserne proprietario, non nella convinzione di averlo in qualche modo sottratto a qualcun altro. Il termine e l’incontestabilità del possesso sono invece dati oggettivi. Qualora nell’arco dei 20 anni intervenga un fatto che in qualche modo contesti il possesso, il decorso dei 20 anni viene interrotto”.

In che modo avviene il passaggio da possesso a proprietà del bene?

“Nel momento in cui decorre il termine, quindi 20 anni per l’usucapione ordinaria, si diventa proprietari in automatico per il semplice decorso del termine. La proprietà però va poi fatta risultare nei Pubblici Registri. Quindi, in realtà, il solo modo per accertare l’intervenuto decorso dei 20 anni a seguito di quel possesso incontestato è una sentenza del giudice. E’ necessaria dunque una sentenza del giudice che dichiari intervenuta l’usucapione.

Fino al 2013 arrivare alla sentenza del giudice era estremamente complesso. Occorreva attivare una causa, citando chi risultava da qualche documento controinteressato e potenziale proprietario a sua volta, causa che si poteva tenere anche in contumacia. Il giudice, non avendo altro strumento che la prova testimoniale, faceva le opportune verifiche e – ove non intervenisse alcun fatto contrario – dichiarava intervenuta l’usucapione. La sentenza veniva trascritta e a quel punto teneva luogo dell’atto d’acquisto, dando quindi per accertata l’usucapione.

C’è stato un periodo in cui i notai dichiaravano intervenuta l’usucapione su dichiarazione di parte: dovendo vendere un bene di cui non si riusciva a trovare il titolo di acquisto in capo alla persona che veniva in atto, la persona dichiarava di possederlo da più di 20 anni a titolo di proprietario in modo incontestato, di questo si informava il compratore e se quest’ultimo era d’accordo si faceva l’atto. Di fatto, sono intervenute alcune sentenze, anche della Cassazione, che hanno affermato che questo non è possibile, perché deve essere una sentenza del giudice a dichiarare intervenuta l’usucapione.

Nel 2013 poi è stato inserito un nuovo comma nell’articolo 2643 del Codice civile, il comma 12 bis. In base a tale comma, anziché arrivare alla pronuncia del giudice e alla sentenza, è possibile trascrivere e quindi sostituire alla sentenza o all’atto notarile un verbale di mediazione che accerta l’usucapione. Questo ha molto snellito le problematiche legate all’usucapione”.

Come funziona e in cosa consiste la mediazione?

“Questa procedura deve essere attivata presso un organismo di mediazione riconosciuto iscritto in un registro del Ministero di Giustizia. Il procedimento consiste nell’attivare la mediazione contro qualcuno che potrebbe essere proprietario. La semplificazione enorme sta nel fatto che dall’incontro tra le parti, in cui viene trovato un accordo, esce un verbale che deve essere firmato dalle parti stesse, dagli avvocati e deve essere autenticato da un notaio. A questo punto il verbale viene trascritto e si sostituisce alla sentenza o all’atto di compravendita. I vantaggi stanno nel fatto che la mediazione dura al massimo tre mesi, contro i circa due anni necessari per ottenere una sentenza del giudice, e in più l’accordo di mediazione fino a 50.000 euro di valore del bene usucapito è esente da imposte di registro”.

E’ possibile interrompere l’usucapione? In che modo?

“Qualsiasi azione che contesti l’usucapione interrompe il termine. I modi sono ovviamente numerosi, dato che per usucapione si possono acquistare non soltanto i beni immobili, ma anche i diritti reali sui beni immobili.

Nel caso di un alloggio, ad esempio, se nel corso dei 20 anni stabiliti a chi possiede perviene la lettera di qualcuno che afferma che il possesso di quell’alloggio non è legittimo, quella stessa lettera interrompe il decorso dei 20 anni necessari per poter parlare di usucapione di quel bene immobile. Nel caso invece di una servitù di passaggio, se un soggetto passa per 20 anni su un terreno nella convinzione di poterlo fare, senza che nessuno contesti il passaggio, dopo 20 anni acquista per usucapione non la proprietà, ma il diritto di passaggio. Se il proprietario del terreno mette un cancello, quello in automatico interrompe il ventennio, perché non è più incontestata la facoltà di passare.

Bisogna poi ricordare che l’articolo 1159 del Codice civile parla di usucapione decennale. In merito, se l’acquisto da parte di colui che usucapisce è avvenuto in forza di un titolo idoneo a trasferire la proprietà, allora l’usucapione si compie con il decorso di 10 anni”.

Quali beni immobili rientrano più di frequente nei casi di usucapione?

“Per un alloggio i casi di usucapione sono rarissimi, per un terreno – soprattutto nelle zone di campagna e nell’Italia più rurale – sono piuttosto frequenti, per quello che riguarda in particolar modo le servitù sono assolutamente frequenti. Nell’Italia più industrializzata si verifica soprattutto per gli accessori degli alloggi, quindi cantine e soffitte, qualche volta per i box”.

Categorie catastali A, B, C, D, E e F: cosa sono e quali sono le differenze

Le categorie catastali sono dei codici che distinguono gli immobili in base alle loro caratteristiche strutturali e costruttive e al loro uso. Sono divise in sei gruppi, ognuno dei quali è composto da molteplici sottocategorie.

Quali sono le categorie catastali

Le categorie catastali previste dal nostro ordinamento sono sei: A, B, C, D, E e F. Ognuna di esse ricomprende al proprio interno immobili che hanno caratteristiche simili, meglio individuati con divisioni interne a ciascuna categoria.

Ad esempio, nella categoria A rientrano, in generale, le abitazioni. Le varie sottocategorie, ad esempio A/1, A/2, A/3 e così via, individuano poi la specifica tipologia di abitazione di cui si tratta.

Categorie catastali: a cosa servono

Le categorie catastali possono avere molteplici finalità. Quella principale, tuttavia, è di dare una logica all’individuazione della rendita catastale di un certo immobile e di modulare la tassazione a seconda delle sue caratteristiche, della destinazione dello stesso e dell’uso che ne viene formalmente fatto.

Destinazione ordinaria e speciale 

Prima di analizzare nel dettaglio quali immobili vanno ricompresi in una o in un’altra categoria e sottocategoria, appare opportuno segnalare che le diverse categorie catastali possono essere suddivise in due raggruppamenti:

  1. gli immobili a destinazione ordinaria sono quelli riconducibili alle categorie A, B, e C;
  2. gli immobili a destinazione straordinaria sono quelli riconducibili alle categorie D, E e F.

Categoria catastale A

La categoria catastale A, come accennato, contempla le abitazioni e si suddivide nelle seguenti sottocategorie:

  • A/1: abitazioni di tipo signorile;
  • A/2: abitazioni di tipo civile;
  • A/3: abitazioni di tipo economico;
  • A/4: abitazioni di tipo popolare;
  • A/5: abitazioni di tipo ultrapopolare;
  • A/6: abitazioni di tipo rurale;
  • A/7: abitazioni in villini;
  • A/8: abitazioni in ville;
  • A/9: castelli, palazzi di eminenti pregi storici o artistici;
  • A/10: studi e uffici privati;
  • A/11: alloggi e abitazioni tipiche dei luoghi.

Categoria catastale B 

Nella categoria catastale B rientrano gli immobili facenti parte del patrimonio immobiliare urbano, così suddivisi:

  • B/1: collegi, orfanotrofi, conventi, seminari, ricoveri, ospizi, caserme;
  • B/2: ospedali e case di cura senza fine di lucro;
  • B/3: riformatori e prigioni;
  • B/4: uffici pubblici;
  • B/5: laboratori scientifici e scuole;
  • B/6: accademie, gallerie, musei, pinacoteche, biblioteche (che non si trovano all’interno di palazzi di pregio e castelli appartenenti alla categoria A/9);
  • B/7: oratori e cappelle non destinate all’esercizio pubblico del culto;
  • B/8: magazzini sotterranei per depositi di derrate.

Categoria catastale C

Nella categoria C rientrano gli immobili di uso commerciale e terziario. Le sue sottocategorie sono:

  • C/1: locali commerciali;
  • C/2: locali di deposito e magazzini;
  • C/3: laboratori per arti e mestieri;
  • C/4: locali e fabbricati per esercizi sportivi senza fine di lucro;
  • C/5: stabilimenti di acque curative e balneari senza fine di lucro;
  • C/6: autorimesse, rimesse, scuderie e stalle senza fine di lucro;
  • C/7: tettoie aperte o chiuse.

Categoria catastale D

La categoria catastale D ricomprende gli immobili speciali a fine produttivo o terziario, ovverosia:

  • D/1: opifici;
  • D/2: alberghi con fine di lucro;
  • D/3: sale per spettacoli e concerti, cinematografi e teatri con fine di lucro;
  • D/4: ospedali e case di cura con fine di lucro;
  • D/5: istituti di assicurazione, cambio o credito con fine di lucro;
  • D/6: locali e fabbricati per esercizi sportivi con fine di lucro;
  • D/7: fabbricati costruiti o adattati per le speciali esigenze di un’attività industriale e non suscettibili di destinazione diversa senza radicali trasformazioni;
  • D/8: fabbricati costituiti o adattati per le speciali esigenze di un’attività commerciale e non suscettibili di destinazione diversa senza radicali trasformazioni;
  • D/9: edifici sospesi o galleggianti assicurati a punti fissi del suolo, ponti privati a pedaggio;
  • D/10: fabbricati rurali.

Categoria catastale E 

Anche la categoria E ricomprende immobili a destinazione speciale, in particolare:

  • E/1: stazioni per servizi aerei, marittimi, terrestri e di trasporto;
  • E/2: ponti comunali e provinciali a pedaggio;
  • E/3: fabbricati e costruzioni per esigenze pubbliche speciali;
  • E/4: recinti chiusi per esigenze pubbliche speciali;
  • E/5: fabbricati costituenti fortificazioni e loro dipendenze;
  • E/6: torri, semafori e fari per rendere d’uso pubblico l’orologio comunale;
  • E/7: fabbricati destinati all’esercizio pubblico dei culti;
  • E/8: costruzioni e fabbricati nei cimiteri, esclusi i sepolcri, i colombari e le tombe di famiglia;
  • E/9: edifici a destinazione particolare non compresi nelle categorie precedenti del gruppo E.

Categoria catastale F

Infine, fanno parte della categoria catastale F le unità immobiliari urbane che non sono idonee a produrre ordinariamente un reddito.

Le sottocategorie previste sono le seguenti:

  • F/1: aree urbane;
  • F/2: unità collabenti;
  • F/3: unità in corso di costruzione;
  • F/4: unità in corso di definizione;
  • F/5: lastrici solari;
  • F/6: fabbricato in attesa di dichiarazione;
  • F/7: infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione.

Come calcolare la redditività di un immobile

Per far sì che un investimento abbia successo e sia redditizio non basta fare supposizioni generiche e personali: calcola la redditività di un immobile e assicurati un acquisto che ti possa dare frutti negli anni a venire.

Valutazioni precise portano a un maggior rendimento dell’investimento

Gli investimenti non devono essere visti come un colpo di fortuna dall’esito quasi impossibile da prevedere; al contrario, quando si acquista un immobile con lo scopo di trarne un ritorno economico, è molto importante fare in anticipo le dovute valutazioni a breve e a lungo termine. Più si è in grado di effettuare valutazioni precise, maggiore sarà anche la precisione della previsione del rendimento del proprio investimento immobiliare.

Quando si parla di investimenti immobiliari, è sempre opportuno verificare che il proprio immobile sia davvero una fonte di reddito e non una spesa, altrimenti non ha senso tenerlo nel proprio portafoglio immobili ed è consigliabile venderlo al più presto.

E’ necessario ed opportuno ricercare una serie di informazioni prima di effettuare un acquisto importante come un immobile, per esempio analizzando l’appetibilità attuale della localizzazione dell’immobile e i potenziali cambiamenti attesi nel quartiere circostante. Ma l’informazione fondamentale che permette agli investitori di prendere una decisione, è senza dubbio il tasso di rendimento o di redditività di un immobile.

Scopri come calcolare il tasso di rendimento di un immobile

I 3 step per il calcolo della redditività di un immobile:

  • Calcolare il reddito lordo annuo dell’immobile
  • Sottrarre i costi operativi
  • Dividere per il prezzo d’acquisto

Vediamoli ora nel dettaglio.

Per prima cosa dovresti calcolare il reddito lordo annuo dell’immobile su cui si è investito

Il reddito lordo di un immobile è dettato principalmente dall’appetibilità alla locazione. In altre parole, quando si acquista un immobile come investimento, di solito se ne ricava un profitto semplicemente affittandolo a degli inquilini.

Per esempio, hai appena acquistato un immobile che vorresti dare in affitto ad un prezzo di €500/mese. Con questo canone di affitto, ti aspetterai di incassare esattamente 500 × 12 = €6.000 all’anno di reddito lordo prodotto dalla proprietà.

A questo punto, sottrai dal reddito lordo i costi operativi relativi alla proprietà

Detenere la proprietà di un immobile sottintende dei costi da sostenere, ovvero costi di manutenzione, assicurazione, tasse e spese di gestione dell’immobile. Una volta individuati e sommati questi costi, sottraili dalla somma dal reddito lordo che hai appena calcolato: questo è il reddito netto del fabbricato.

Per esempio, supponi che dopo aver stimato l’immobile da affittare, hai calcolato che dovrai sostenere ogni anno €500 di costi per la gestione dell’immobile, €250 di manutenzione, €200 di tasse e €350 di assicurazione. Dunque, €6.000 – €500 – €250 – €200 – €350 = €4.700, questo è il reddito netto della tua proprietà.

Ora dividi il reddito netto per il prezzo di acquisto dell’immobile

Il tasso di rendimento è dato dal rapporto tra il reddito netto della proprietà e il suo prezzo originario e viene espresso in forma percentuale.

Identificato il valore complessivo di acquisto e determinato il reddito netto, ora non ti resta che fare una semplice divisione tra il reddito netto e l’importo totale dell’acquisto dell’immobile.

La formula ti permette di determinare la redditività netta dell’operazione immobiliare: Redditività % = (Reddito Netto / Costo Complessivo Acquisto) x 100.

Supponi di aver acquistato l’immobile a €50.000. Fornito questo dato, hai tutti gli elementi necessari per determinare il tasso di rendimento.

Riprendendo i dati precedenti: €4.700 (reddito netto) / €50.000 (prezzo d’acquisto) = 0,094 = tasso di rendimento 9,4%.

Utilizza in modo intelligente il Tasso di Rendimento

Calcolato il tasso di rendimento, puoi iniziare a confrontare velocemente diverse opportunità di investimento simili a quella che vuoi intraprendere.

In breve, il tasso di rendimento rappresenta il ritorno percentuale stimato che si potrebbe ottenere con l’acquisto di un immobile. Per questo motivo, il tasso di rendimento è un ottimo indicatore che puoi utilizzare per confrontare un potenziale acquisto con altre opportunità di investimento simili.

Il tasso di rendimento permette di effettuare confronti semplici e veloci delle potenziali entrate provenienti da proprietà immobiliari acquistate a scopo di investimento e può essere utile per restringere la lista delle scelte possibili.

Per esempio, supponi di dover valutare l’acquisto di due immobili nello stesso quartiere: uno ha un tasso di rendimento del 9%, mentre l’altro del 14%. Questo confronto iniziale fa prediligere il secondo immobile, ovvero ci si aspetta che questo generi più denaro per ogni euro investito per acquistarlo.

Non usare il tasso di rendimento come unico indicatore per determinare la qualità di un investimento

Sebbene il tasso di rendimento dia la possibilità di confrontare due o più unità immobiliari, non è certo l’unico elemento da tenere in considerazione. Gli investimenti immobiliari possono essere abbastanza complicati: investimenti apparentemente semplici potrebbero diventare oggetto di speculazioni di mercato e di eventi imprevisti che vanno al di là della portata del semplice calcolo del tasso di redditività di un immobile. Come minimo, dovresti anche considerare il potenziale di crescita del reddito prodotto dall’immobile, come anche le variazioni di valore della proprietà stessa.

Per esempio, supponi di acquistare un immobile a €750.000, calcolando di guadagnare dalla messa a reddito dello stesso ogni anno €75.000, quindi ciò che ti aspetti è di avere un tasso di rendimento del 10%. Se il mercato immobiliare locale si modifica e il valore dell’immobile aumenta a €1.500.000, improvvisamente avrai un tasso di rendimento meno profittevole, pari al 5%. In questo caso potrebbe essere saggio vendere l’immobile e investire i relativi profitti in un altro investimento.

Utilizza il tasso di rendimento per giustificare il livello di reddito dell’immobile

Se si è a conoscenza del tasso di rendimento medio nella zona in cui è situato l’immobile, si può usare questa informazione per determinare il reddito che la proprietà deve produrre affinché l’investimento sia conveniente.

Per farlo, basta moltiplicare semplicemente il prezzo richiesto per l’acquisto, per il tasso di rendimento di immobili simili nella zona, trovando così il reddito netto consigliato.

Per esempio, se hai acquistato un immobile per €500.000 in una zona in cui la gran parte delle proprietà simili hanno un tasso di rendimento di circa l’8%, puoi calcolare il reddito consigliato moltiplicando 500.000 × 0,08 = €40.000. Questo rappresenta il reddito netto che l’immobile dovrebbe produrre ogni anno per avere un tasso di rendimento pari all’8%, quindi dovrai adeguare di conseguenza il relativo canone di locazione.

Calcolare la redditività di un immobile è necessario ma non sufficiente!

Il tasso di rendimento non tiene conto dei rischi futuri, dunque non si può fare affidamento solo sul tasso di redditività di un immobile per supporre che esso sia in grado di assicurare il reddito o il valore attuale.

L’immobile e i relativi affitti possono apprezzarsi o deprezzarsi nel corso del tempo e le spese potrebbero contestualmente aumentare facendo sballare i conti. Il tasso di rendimento per calcolare la redditività di un immobile può offrire una previsione sulla qualità dell’investimento da fare, ma non consente di fare alcun tipo di previsione sui rischi che riserva il futuro.

Nonostante ciò, trascorso ormai il periodo nero in cui gli immobili hanno visto un rapido deprezzamento dovuto alla recessione economica, l’investimento nel mattone resta ancora una delle migliori opportunità per chi vuole ottenere dai propri risparmi una rendita in costante aumento.

Chi deve pagare le spese di un atto notarile?

L’articolo 1475 del codice civile prevede che “Le spese del contratto di vendita e le altre accessorie sono a carico del compratore, se non è stato pattuito diversamente”.

Peraltro, come detto, è fatta salva la possibilità di stipulare patti in deroga alle previsioni del codice e quindi addossare al venditore il pagamento dei costi notarili.

Il principio generale delle spese

La norma esprime il principio generale secondo il quale il costo dell’atto notarile, comprensivo di imposte, tasse, spese ed onorario, gravano sul soggetto che ha maggior interesse alla conclusione del contratto, in applicazione del quale usualmente le spese della compravendita gravano sul compratore, quelle della donazione sul donatario, quelle della permuta su entrambi i permutanti, quelle della divisione su tutti i condividenti, quelle di un mutuo sul mutuatario, quelle di costituzione della società sui soci fondatori o sulla stessa società, e così via.

La solidarietà di tutti i partecipanti all’atto

Peraltro l’articolo 78 della Legge 16 Febbraio 1913 n. 89 (Ordinamento del notariato) prevede una responsabilità solidale di tutte le parti partecipanti all’atto “le parti sono tenute in solido verso il notaio tanto al pagamento degli onorari e diritti accessori quanto al rimborso delle spese.

Il notaio può rifiutarsi verso chiunque alla spedizione delle copie degli estratti e dei certificati, finchè l’accennato pagamento o, rimborso, non sia stato interamente eseguito” e l’art. 28, ultimo comma, della legge notarile dispone che “il notaro può ricusare il suo ministero se le parti non depositino presso di lui l’importo delle tasse, degli onorari e delle spese dell’atto”.

Il principio della solidarietà serve quindi a tutelare il Notaio dai rischi derivabili dalla insolvenza delle parti per gli atti da lui ricevuti in quanto l’attività notarile, svolta nell’ambito di un rigido sistema di controlli pubblici, costituisce esplicazione di un compito delegato dallo Stato: c.d. esercizio privato di pubbliche funzioni.

Dalla natura pubblica del servizio offerto – caratterizzato dall’obbligatorietà della prestazione professionale – discende la rilevanza costituzionale dell’intervento notarile, la cui importanza traspare anche nell’ambito del sistema tributario, con la riscossione delle imposte dovute per gli atti ricevuti.

La rinuncia alla solidarietà delle Banche

Spesso gli Istituti di Credito e le banche inseriscono nei contratti di mutuo una clausola con cui le parti stabiliscono a carico di una di esse l’ onere della parcella notarile.

Tale clausola, se da un lato è del tutto legittima e quindi valida fra le parti, dall’altro non intacca affatto il principio di solidarietà nei confronti del notaio, fatto salvo ovviamente il diritto di rivalsa fra le parti.

Altra cosa è invece la rinuncia da parte del notaio al diritto di solidarietà tra le parti. Tale diritto è senz’altro rinunciabile e infatti è prassi costante di alcune banche far firmare al notaio una dichiarazione extra-contrattuale con la quale egli rinuncia alla solidarietà delle parti in ordine alle spese.

Tutto sulla comunione legale e sulla separazione dei beni

In Italia quando due persone si sposano tra di loro si instaura automaticamente il regime patrimoniale della comunione legale dei beni. Tale regime è entrato in vigore il 20 settembre 1975 con la l. 19 maggio 1975 n. 151 (cd. Riforma del diritto di Famiglia).

In precedenza, infatti, il regime legale era quello della separazione dei beni e per instaurare la comunione occorreva un apposito negozio di comunione convenzionale. Prima del 1975 di norma ciascun coniuge restava titolare esclusivo dei beni acquistati in costanza di matrimonio.

Questa situazione però si rifletteva negativamente sulle dinamiche sociali, dove molto spesso nella famiglia italiana il marito era l’unico a lavorare e a produrre reddito mentre la moglie si dedicava alla casa e all’educazione dei figli. Per il Legislatore questo poneva in una situazione di svantaggio e di dipendenza economica il coniuge non lavoratore. D’altronde era anche grazie al tempo dedicato dalla moglie alla casa e ai figli che il marito poteva concentrarsi pienamente sulla propria attività lavorativa.

Nell’intento di dare esecuzione ai principi costituzionali di uguaglianza giuridica e morale tra i coniugi nonché con la volontà di riconoscere piena tutela ad ogni forma di lavoro, specialmente quello domestico, si decise di invertire totalmente la regola, stabilendo quale regime legale la comunione dei beni. In questo modo, di ogni acquisto compiuto dai coniugi, anche singolarmente, si avvantaggia anche l’altro e un simile meccanismo finiva per riconoscere una tutela anche al coniuge più debole economicamente, di norma rappresentato dalla moglie dedita al lavoro di casa.

E’ sotto gli occhi di tutti però che dal 1975 ad oggi le cose sono del tutto cambiate, non esiste più la famiglia patriarcale e molto spesso entrambi i coniugi lavorano e producono un proprio reddito, e per tutto questo sembrano ormai quantomeno anacronistiche le ragioni che imposero quale regime legale la comunione dei beni e non sono poche le voci degli addetti ai lavori che spingono per un ritorno alla separazione dei beni quale regime patrimoniale di base.

Lasciando da parte tali considerazioni, cerchiamo di capire come funziona la comunione legale dei beni e quali conseguenze ha nella stipula degli atti di compravendita.

Come funziona la comunione dei beni

Come detto, la legge prevede che, al momento del matrimonio, tra i coniugi si instauri automaticamente la comunione dei beni. Per evitare tale effetto automatico ci sono due strade:

  1. la prima è dichiarare, già nell’atto di matrimonio, la scelta per il regime di separazione;
  2. la seconda è quella di stipulare successivamente un atto notarile con la quale i coniugi dichiarano la propria volontà di passare alla separazione dei beni.

Non basta stipulare una convenzione matrimoniale ma è necessario che venga altresì annotata a margine dell’atto di matrimonio. Una volta stipulata la convenzione, il notaio la comunica all’ufficiale dello stato civile presso il Comune ove è stato celebrato il matrimonio e questi provvede ad eseguire tale pubblicità. Solo dopo tale adempimento il cambio di regime patrimoniale sarà opponibile ai terzi.

Tutto ciò si riflette anche sull’attività notarile perchè il notaio incaricato della stipula di una compravendita non potrà limitarsi a effettuare le sole verifiche ipotecarie e catastali ma dovrà altresì chiedere alle parti quale sia il loro regime patrimoniale perché, come vedremo, c’è una particolare disciplina da rispettare nel caso di soggetti sposati in comunione legale dei beni.

Come funziona la separazione dei beni

Se una persona vuole acquistare un immobile ed è sposata in regime di separazione dei beni, non si pongono grandi problemi.

Se compra da solo, l’immobile sarà intestato in ogni caso solo a lui e al suo coniuge non spetterà nulla. Se invece vogliono comprarlo insieme, è necessario che entrambi stipulino e firmino l’atto di compravendita e solo in questo caso diventeranno comproprietari dell’immobile acquistato.

Se invece si è sposati in comunione dei beni, anche se a comprare sia solo uno dei due, di tale acquisto si avvantaggerà anche il coniuge non acquirente, pur non avendo stipulato e firmato l’atto di compravendita. Questo è il meccanismo di acquisto automatico previsto dall’art. 177 c.c. in forza del quale “gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio costituiscono oggetto della comunione, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali”, ipotesi di cui a breve parleremo.

Come comportarsi in caso di vendita

Come abbiamo spiegato, se Tizio è sposato in comunione dei beni e compra da solo un immobile, salvo che si tratti di bene personale, questo finisce in comunione.

A differenza della comunione ordinaria, la comunione dei beni viene definita una “comunione senza quote”, in quanto finchè perdura ciascun coniuge non può dirsi titolare di una quota di comproprietà e non ne può disporre autonomamente, ma potrà farlo solo allo scioglimento della stessa. Se fosse uguale alla comunione ordinaria, ciascun comproprietario potrebbe cedere la propria quota autonomamente. L’unico modo per poterlo fare è quindi procedere prima della vendita alla stipula di una  separazione dei beni.

Per intenderci se due coniugi in separazione comprano un immobile insieme, sono comproprietari 1/2 ciascuno; se due coniugi in comunione comprano un immobile, questo finisce semplicemente in comunione dei beni, e potranno ritenersi effettivamente titolari della quota di 1/2 solo al momento della scioglimento della stessa.

Occorre sapere poi che la legge stabilisce regole inderogabili per la gestione e l’amministrazione dei beni in comunione legale. L’ordinaria amministrazione spetta ai coniugi anche disgiuntamente, mentre tutto ciò che implichi straordinaria amministrazione, come ad esempio, la vendita, la permuta o la concessione di ipoteche, deve essere compiuto congiuntamente dai coniugi.

Un esempio di vendita

Luisa ha sposato nel 1990 Filippo e sono ancora coniugati in comunione dei beni. Nel 1995 la sola Luisa aveva acquistato un immobile da Giorgio, bene che è quindi finito in comunione dei beni. Oggi è intenzione di Luisa vendere tale immobile ma per farlo dovrà intervenire e sottoscrivere l’atto anche Filippo perchè trattasi di atto di vendita di un bene in comunione dei beni anche se, all’epoca, a sottoscrivere l’atto di acquisto era stata solo Luisa.

Il notaio incaricato della stipula quindi non potrà fare affidamento solo sulle risultanze de registri immobiliari e del catasto ma dovrà accertarsi presso le parti anche del loro regime patrimoniale per sapere a chi spetta la legittimazione a stipulare l’atto stesso. Il tutto perchè soprattutto in passato non si indicava in atto il regime patrimoniale delle parti come oggi impone la legge (in realtà l’art. 2659 c.c. impone l’indicazione del regime nella sola nota di trascrizione ma la prassi notarile consolidata lo riporta anche in atto), e quindi il notaio che voglia accertarsi della legittimazione a vendere, dovrà chiedere se chi aveva acquistato all’epoca fosse in comunione dei beni o meno perchè in caso di risposta affermativa, sarà necessario il consenso anche dell’altro coniuge.

Tutto ciò è molto importante che venga rispettato perchè la legge stabilisce che gli atti compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro possono essere annullati (art. 184 c.c.).

I beni che rimangono personali

Non tutti i beni finiscono in comunione dei beni e la legge (art. 179 c.c.) stabilisce i casi e le modalità con le quali far risultare che un bene sia personale ad uno solo dei coniugi. Ma cerchiamo di capire quali sono.

  1. tutti i beni acquistati prima del matrimonio;
  2. i beni che uno dei coniugi abbia ricevuto per successione o donazione. In questo caso, anche se ricevuti in costanza di matrimonio, la legge blocca il meccanismo della comunione legale, per la particolare provenienza del bene stesso. Tali beni finiscono in comunione solo se il de cuius nel testamento o il donante in atto abbiano specificamente attribuito tali beni alla comunione, cosa che però nel 99,99 % dei casi non avviene;
  3. i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge, si pensi al vestiario o ad un accessorio come l’orologio da polso;
  4. i beni che servono all’esercizio della professione del coniuge, si pensi allo studio del coniuge avvocato;
  5. i beni ottenuti a titolo di risarcimento danni nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa;
  6. i beni acquistati con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all’atto di acquisto. Questa è forse l’ipotesi più importante di esclusione: si pensi al caso di vendita di un immobile ricevuto per successione e al successivo acquisto di un altro immobile con il ricavato della suddetta vendita. Anche questo nuovo immobile sarà personale per un fenomeno definito di “surrogazione reale” (sostituisco un bene personale con un altro). Per far sì che si verifichi tale surrogazione è però necessario che si dichiari espressamente in atto la natura personale del bene.

La legge per evitare contestazioni e facili elusioni della disciplina della comunione legale dei beni, nel caso di acquisto di beni immobili di cui alle indicati ai punti 3), 4) ed 6) impone che l’effettiva natura personale del bene acquistato sia confermata anche dal coniuge non acquirente.

In poche parole è necessario che quest’ultimo presenzi all’atto di compravendita al solo fine di confermare espressamente la dichiarazione resa dal coniuge acquirente. La Cassazione ha però precisato che tale conferma è una mera dichiarazione di scienza e non vale ad escludere il bene dalla comunione se in realtà il bene acquistato non è personale.

Per intenderci se Carlo che fa il medico acquista un immobile da adibire a studio dichiarando che è suo bene personale perchè utile all’esercizio della sua professione e la moglie Luisa conferma tale dichiarazione in atto, ma poi tale immobile viene adibito ad abitazione coniugale, anche se Luisa ha confermato la natura personale, l’immobile finisce lo stesso in comunione dei beni.

Questo è il risultato di un consolidato orientamento della Cassazione (Cass. S.U. n. 22755/2009) secondo il quale sarebbe invalido il cosiddetto “rifiuto del co-acquisto”, ovvero non si può dichiarare di voler escludere un immobile che dovrebbe invece finire in comunione dei beni. Se si ammettesse un simile risultato si finirebbe per svilire l’intento di tutela posto alla base della comunione dei beni e, afferma la Cassazione, se i coniugi intendono raggiungere tale obiettivo, possono sempre stipulare una convenzione di separazione dei beni.

Conclusioni de iure condendo

In queste poche righe sono stati analizzati solo gli aspetti salienti del regime della comunione legale dei beni ma come è facile immaginare la sua applicazione diretta produce non solo difficoltà pratiche evidenti ma è anche oggetto sempre più spesso di contenzioso giudiziale il che probabilmente non è più controbilanciato dalle esigenze di tutela insite nella riforma del diritto di famiglia del 1975.

Tutto questo deve far riflettere il Legislatore al fine di capire se abbia ancora ragion d’essere prevedere quale regime di base la comunione legale dei beni o se forse non sia necessario pensare di tornare al regime previgente della separazione dei beni.

Questo non significa abbassare le tutele o disconoscere l’uguaglianza fra i coniugi ma semplicemente semplificare la normativa, abbattere il contenzioso e adeguarla al radicale cambiamento del tessuto sociale.

Notaio Massimo d’Ambrosio

Open chat
Ciao
Come posso aiutarti?
Call Now Button